mercoledì 22 giugno 2011

GILLIAT...IL MOSTRO 4^ Parte

(Battello Vapore a "ruote", simile alla "Durand",
impegnato al passaggio di Capo Horn)


GILLIAT...IL MOSTRO
Quarta Parte

Nei giorni successivi Gilliat lavorò ancora di più, mentre la notte, nella sua angusta tana di pietra riposava il corpo, ma assai poco la mente, occupato a calcolare, prefigurarsi ed organizzare le soluzioni da adottare per superare gli ostacoli enormi che lo separavano dall'esito impossibile.
Cercava di sfruttare al massimo la fantasia per inventare gli strumenti, le tecniche possibili, i marchingegni utili a raggiungere l'improbabile risultato: riportare a Guernesì l'apparato motore della Durand sano e salvo !

La prima cosa da fare era predisporre il sistema di sostentamento e sollevamento della macchina a vapore ed era questo forse il problema più grosso ed importante da risolvere.
Avrebbe così potuto imbragarla ed impedire che affondasse ulteriormente quando lui poi, lavorando sott'acqua in apnea, avesse provveduto a liberarla dai relitti dello scafo che ancora ad essa erano collegati e che la sorreggevano di qualche metro rispetto al sottostante fondale.
L'unica possibilità di Gilliat era di utilizzare le torri delle Druve come pilastri, tra i quali doveva quindi realizzare un "ponte" capace di sostenere l'enorme peso della macchina, dotato per altro di svariate carrucole, al servizio di un articolato sistema di paranchi in grado di provvedere al sollevamento.
Egli infatti aveva accertato che il differenziale di marea non era sufficiente per consentirgli di inserire la"pancia"sotto il carico da collocare: doveva provvedere un ulteriore inalzamento di circa un metro.
Calcolando anche l'altezza totale della macchina Gilliat aveva stimato che il ponte di sollevamento tra le Druve doveva posizionarsi a non meno di una decina di metri al di sopra del livello di alta marea.
A quell'altezza posizionò i pali più grossi e robusti che gli riuscì di pescare tra i relitti, incastrandoli ad arte in apposite nicchie che aveva scavato nella roccia di entrambe le torri. Al di sotto dei pali, a loro rinforzo e sostegno, posizionò poi numerose capriate, ugualmente incastrate al meglio tra le rocce ed affrancate con solidi canapi, così da formare un'imbragatura complessa, articolata, ma il più possibilie resistente.
Alla fine su quel "ponte"avrebbe potuto transitare un...treno !
Ed il peso della macchina equivaleva sicuramente a quello di un'intera Locomotiva, con l'aggiunta di qualche vagone !
Ma il lavoro più delicato fù poi quello che dovette fare come "fabbro", per organizzare tutte le carrucole necessarie a formare il complesso insieme di paranchi destinati al sollevamento.
Per far quello Gilliat dovette stare alla fucina e battere il ferro per almeno due giorni interi, modificando ed incrementando il per altro abbanodante materiale già recuperato tra i relitti disseminati sugli scogli e nei fondali più accessibili: ruote, carrucole, pulegge, e soprattutto i grossi paranchi di cui la Durand era dotata per il sollevamento delle merci da caricare e scaricare.
La mazza e la tenaglia, nelle forti ed esperte mani di Gilliat battevano e serravano il ferro incandescente sull’incudine di granito dandogli forma e consistenza, subito raffreddati in un bulacco d’acqua marina.
Una volta che ebbe pronto tutto quel materiale Gilliat salì sul ponte fra le Druve, per posizionarlo nei vari punti, funzionali al sollevamento, secondo un attento schema che prevedeva gli ingombri del carico in linee verticali, ma anche oblique del sollevamento.
Poi, come il ragno che tesse un enorme ragnatela, egli dispose attraverso tutte quelle carrucole un complesso sistema di funi, di tiranti riavvolte a più mandate per raddoppiare, quadruplicare…decuplicare le leve di forza che avrebbe dovuto applicare per sollevare l’enorme peso della macchina. I capi di tutte quelle funi raccolse alla fine in chiaro in posizione comoda, libera e sicura, per poterle manovrare tutte, contemporaneamente o quasi, una volta che avesse liberata ed imbragata la piattaforma che sosteneva macchina, favorito dall’alta marea.

Nel compiere tutte queste delicate, difficili e spesso pericolose operazioni, Gilliat si muoveva sugli scogli, si arrampicava sulle Druve, carponava sul prodigioso ponte da lui stesso realizzato, con l’agilità e la sicurezza di un esperto equilibrista e rocciatore, in totale economia di movimenti, sempre calibrandoli al meglio, sempre misurando ogni passo, ogni mossa, ogni sforzo !
Secondo i parametri correnti di un normale individuo quante volte arrischiò la sua vita in quell’opera impossibile ?
Sicuramente tantissime volte, ogni giorno.
Non gli mancava tuttavia la prudenza, anzi cercava di agire con la massima circospezione, conscio che anche un incidente di secondaria entità, una ferita, una frattura di lieve importanza in condizioni normali, là in mezzo a quell’improbabile isola di infidi scogli battuti dalle onde, nell’alto mare lontano da qualsiasi soccorso, avrebbe potuto essergli fatale, nel migliore dei casi vanificare tutto il suo eroico, epico, laboriosissimo tentativo.

Predisposto che ebbe il sistema di sollevamento Gilliat intensificò le sue immersioni in apnea per liberare la macchina dai residui rottami dello scafo. Ed allora trascorse intere giornate ad immergersi, inabissarsi e risalire, boccheggiante, sempre affamato di aria.
Per quanto infatti cercasse di risparmiare ossigeno, con movimenti lenti ed accorti, ilproblema là sotto era esercitare la forza necessaria per staccare dalla macchina lo scafo restante. Data la densità dell’elemento, non moteva usare efficacemente l’ascia da carpentiere né la mazza, il cui slancio veniva frenato dal peso dell’acqua. Dovette allora cercare di “smontare” ogni pezzo, allentando bulloni, tagliando bande d’acciaio con seghetto o cesoie ed aiutarsi infine con una lunga e pesante leva di ferro per divellere quanto già aveva allentato. Operazioni quanto mai imporbe, lunghe e spossanti da compiere in apnea ed in profondità: per ogni immersione, tolti i tempi per discendere e risalire, riusciva a dedicare al massimo due minuti, anche uno soltanto se lo sforzo che doveva compiere era tale da fargli velocemente bruciare ogni riserva d’ossigeno nei polmoni !
Poi, risalito in superfice, almeno due o tre minuti doveva riposare per riprendere fiato, per ricaricare l’ossigeno, ma restando in acqua, al freddo nel salmastro bagnato, che alla lunga finì per irritargli la pelle, in assenza di acqua dolce che potesse poi sciacquargli il sale di dosso.

Infine anche la macchina fù libera, nel frattempo già legata, affrancata in sicurezza alle funi del sistema di sollevamento soprastante che perciò risultavano ormai in tensione. Una tensione tuttavia ancora modesta, perché il peso della macchina immersa era così ridotto a neppure la metà, pari al peso del volume dell’acqua spostata, come un tale Archimede, totalmente sconosciuto a Gilliat, aveva teorizzato qualche mille anni prima. Ma se Gilliat non conosceva quell’antico scienziato ed i principi di fisica, matematica e geometria da lui formulati, ne conosceva per esperienza vissuta, sicuramente ne intuiva ogni conseguenza pratica ed era perciò in grado di agire illuminato da quella elementare ma profonda cultura, che gli apparteneva al miglior livello in quanto marinaio della vela, pescatore d’altura, carpentiere navale, fabbro provetto ed attento osservatore della natura e dei suoi fenomeni !

Gilliat a quel punto era pronto per la verità, per la grande, definitiva prova. Fino ad allora era stato sicuramente fortunato: il tempo, il clima lo aveva aiutato, favorendolo con giorante tiepide, mare relativamente tranquillo, notti non eccessivamente fredde, giusto qualche acquazzone di passaggio, utile per fare un po’ di provvista d’acqua dolce e per lavarsi la salsedine di dosso.

Ma proprio quando fù pronto all’imbarco della grande, pesante macchina sulla relativamente piccola “pancia”, certamente sottodimensionata a quel carico, Gilliat scorse all’orizzonte, nel tramonto un minaccioso agglomerato di nubi nere, che stava crescendo verso di lui rapidamente, sollevandosi via più sulla linea lontana del mare che confina con il cielo di ponente.
Era una tempesta Atlantica in arrivo ! Non ebbe dubbi: la prova che ora doveva ancora affrontare poteva essere terribile e vanificare completamente tutto il lavoro duramente e sapientemente svolto, tutti gli epici sforzi che aveva sino ad allora compiuti.
Calcolò che prima di quel fortunale aveva ancora due, forse tre ore per predisporre ulteriori rimedi, ripari, protezioni, sia a preservare la macchina e soprattutto la sua barca. La macchina infatti essendo ancora totalmente immersa ed imbragata era meno esposta, ma la “pancia”, per quanto legata e ridossata e già protetta ad Est dalla robusta diga, inizialmente posta da Gilliat nel varco della scogliera, non lo era altrettanto verso Ovest, dove c’erano è vero le formidabili Druve ed altri potenti scogli a far barriera contro i marosi, ma tra quelle torri restava pur sempre, per quanto stretta, la "porta dell'’inferno", attraverso cui la restante, dirompente forza di onde gigantesche, quali si formano durante gli uragani, si sarebbe facilmente insinuata sconquassando la piccola rada con la sua spinta, residua ma pur sempre devastante !
Gilliat allora, armato della sua ascia multiuso da carpentiere si era precipitato a radunare ogni possibile elemento: pali, assi, longheroni, utili ad improvvisare, il più rapidamente ma saldamente possibile, una barriera protettiva che chiudesse almeno in parte la “porta dell’inferno” rimasta aperta tra le Duvre.
Si aiutò anche con le poche funi che gli erano rimaste, ancorandole al meglio agli spuntoni di roccia esterni, contro l’incombente forza del mare, la cui spinta avrebbe contribuito a cazzarli ulteriormente, stringendone i nodi con cui erani fissati.
Realizzò quel lavoro incrociando le funi a circa 90 gradi, così che alla fine, tra le Duvre risultò tesa come una grande rete, dalle larghe maglie, formata da grossi canapi che s’intessevano con l’assito di pali e tavole, ugualmente incrociate.
Il tutto rendeva un risultato esteticamente assai discutibile, ma formava altrimenti una barriera protettiva che avrebbe potuto resistere almeno in parte alla furia degli elementi scatenati in arrivo.
Quanto avrebbe resistito, Gilliat l’avrebbe ben presto verificato: non aveva infatti ancora terminato che già un forte vento a raffiche lo investiva con prepotenza, mettendo a dura prova il buon equilibrio del suo piede marino.
Poi arrivarono le prime ondate. Ma non in maniera graduale: Gilliat fece in tempo a scorgerle e quindi a riparare velocemente nella sua nicchia, in alto, a circa 12 metri d’altezza sulla Duvre minore.
Quella che stava sopraggiungendo a gran velocità era un’alta barriera d’acqua spumeggiante, di almeno 5 o 6 metri ! Gilliat capì che quell’enorme massa di tonnellate liquide, che giungeva con l’inerzia di almeno 20 nodi di spinta, avrebbe messo immediatamente in discussione tutto il suo lavoro !
Ma non stette ad osservare: sapeva fin troppo bene che, per effetto della scogliera l’onda vi avrebbe rotto sollevandosi, arrampicandosi con forza dirompente, spazzando ogni cosa che vi si trovasse libera al di sopra.
E quella cosa non voleva essere lui, che ne sarebbe stato sbalzato via come un fuscello. Si incastrò invece il più saldamente possibile in fondo al suo minimo ricovero, impiantandosi con gli arti, in spinta contro le pareti di roccia.
Ed infatti l’onda assassina s’insinuò fin là dentro a cercarlo, tentando di snidarlo, di strapparlo via con la sua incredibile pressione !
Non fù solo la prima: molte altre ondate successive di uguale mole e spinta, o perfino maggiori insistettero a spazzare le Druve ed ogni altro scoglio, con la loro ramazza di tonnellate d’acqua sbatture in velocità.
L’uragano durò e crebbe sino a quando fu notte e solo nel buio totale iniziò a scemare. Quando ormai neppure gli spruzzi delle ondate riuscivano a raggiungere il suo covo Gilliat capì che la tormenta era passata, ma che non ne avrebbe potuto verificare i danni sino al chiarore dell’alba. Che saggiamente si rassegnò allora ad attendere, sfilandosi la cerata e cambiando gran parte degli indumenti bagnati.
Il suo fù un sonno breve, ansioso per l’attesa e tuttavia rassegnato:
la sua coscienza era più che a posto, nulla di più e di meglio avrebbe potuto fare in quelle circostanze.

Il chiarore dell’alba lo colse all’interno del cunicolo quando era già in grado di fornirgli luce per una visione chiara e netta della situazione.
La barriera improvvisata tra le Druve aveva in gran parte ceduto: restava solo qualche palo e qualche tavola penzolante tra le maglie della grande rete appesa tra i due enormi scogli. Il ponte di carico soprastante era invece del tutto intatto, c’era solo da sgrovigliare e riordinare i paranchi sbattacchiati dalle onde più alte.
Ugualmente sembrava essere in ordine la zona sottostante, con il fumaiolo emergente nell’usuale posizione a confermare che nulla era accaduto alla macchina, in parte protetta dalla sua immersione.
La barriera di Nord Est, la prima realizzata tra gli scogli successivi alle Druve per proteggere la “pancia” dal quel lato, intravista ancora dall’alto del suo ricovero sembrava quasi intatta, ma da lassù Gilliat non poteva scorgere la sua barca.
Scese quindi veloce ed ansioso, scivolando rapido lungo la fune di collegamento del rifugio e poi saltando tra gli scogli, finchè non fù sopra la minima rada…
La “pancia” era ancora là, saldamente trattenuta da quattro funi d’ormeggio, palesemente intatta, ma allagata d’acqua sin quasi alle murate ed ingombrata dai relitti della diga di fortuna che aveva ceduto.
Gilliat subito diede mano alla pompa a mano di sentina, con la quale dovette lavorare per un’ora, finendo poi l’opera di svuotamento con un gavone. Sgomberò dai relitti la barca ormai recuperata al suo normale galleggiamento ed infine… sentì come un capogiro, era…la fame.

Gilliat, epico eroe indistruttibile aveva fame !
Ed a ragione: era dal mezzogiorno del giorno prima che non mangiava.
Nel minimo antro dov’era riparato dalla tempesta non aveva ormai alcunchè di commestibile, finite le gallette, la carne secca, il stokfish, rimaneva solo un po’ di farina d’avena ammuffita, che avrebbe comunque richiesto condizioni e lavoro per poter essere resa mangiabile. Da alcuni giorni ormai viveva quasi unicamente di pesce, di frutti di mare e di qualche alga brevemente essicata, che lui sapeva commestibile. Il suo corpo era ormai quasi completamente privo di grasso, di riserve combustibili. In caso di bisogno avrebbe giusto potuto metabilizzare fibre muscolari, ciò che sarebbe stato disastroso per un atleta quale egli era, votato in quell’incombenza al duro lavoro per circa 16 ore al giorno !

Proprio mentre aveva terminato di svuotare la sua barca dai molti metri cubi d’acqua marina riversatavi dalla tempesta e stava considerando la necessità di procurarsi una colazione vide, appena sotto la “pancia”, un grosso pesce, probabilmente una cernia che appena sotto la barca stava pascolando, brucando vegetazione marina dallo scoglio antistante. Senza perdere un attimo Gilliat afferrò l’arpione che aveva, con gli altri suoi attrezzi da pesca lì sulla “pancia”, a portata di mano, si sporse dalla murata, prese istintivamente la mira e lo scagliò, infilzando il grosso pesce.
Che se pur ferito immediatamente s’inabissò nuotando verso il fondo.
Nella fretta Gilliat non aveva legato la sagola nell’anello dell’arpione, indispensabile per poterlo recuperare insieme con la preda infilzata. Veloce allora più del pensiero si tuffò immediatamente per recuperare entrambi, preda ed arpione, nelle profondità del mare.
Il grosso pesce, nonostante fosse infilzato, stava già nuotando in profondità. Gilliat lo inseguì rapido, a forza di grandi sforbiaciate di gambe e vigorose trazioni delle braccia, spinto soprattutto dalla…fame, verso quella ben consistente preda.
Fù presto nella scia di sangue che il pesce dietro di se lasciava e riuscì a raggiungerlo all’ultimo istante, mentre tentava d’infilarsi in una stretta fessura della roccia sul fondale, ma inibito per farlo dall’ingombro dell’arpione.
Gilliat finì subito la preda che violentemente si dibatteva, con una sola coltellata in mezzo al capo, da esperto pescatore e poi tornò a salire verso la superfice.
Ma mentre ripartiva con una spinta dei piedi contro la roccia, notò con la coda degli occhi un luccichio sul fondo di sassi e ghiaione, girò allora la testa, e quasi si fermò vedendo chiaramente che si trattava di uno scrigno metallico arenato sul fondo, sulla cui lucida superfice rimbalzavano i raggi del sole filtrati sin laggiù, nell’acqua limpida.
Uno forziere metallico !
Nonostante l’immediato, grande interesse che quella vista gli suscitò, Gilliat ormai ai limti dell’apnea, sia per il molto ossigeno consumato all’inseguimento del pesce, sia per la debolezza da carenze alimentari, riprese a salire, memorizando però attentamente il punto in cui giaceva quello scrigno, subito accanto all’ingresso di quella che pareva essere una grande caverna sottomarina, da lui mai prima notata, nelle pur tante immersioni effettuate alla ricerca di relitti da riciclare nel suo lavoro di recupero e di prede alimentari per integrare le sempre più scarse riserve.
Riemerso in fame d’aria si asciugò, per poi subito dedicarsi a soddisfare l’altra fame, quella dello stomaco, ormai esasperata nell'incombente debolezza.
Cucinò velocemente quella bella e grassa Cernia, direttamente arrostendola su di uno spiedo improvvisato al fuoco della sua fucina di fabbro, fuoco che faticò non poco ad avviare a causa della recente tempesta, che aveva bagnato quasi ogni cosa combustibile.
Mangiò infine con calma, abbondantemente ma lungamente masticando, sia per riabituare lo stomaco al pasto insolitamente abbondante, che per assaporarlo meglio.

Ed intanto che si cibava riposava e pensava, facendo il punto della situazione: la “pancia era intatta, sana, pronta per il grande carico; la macchina pure, già imbragata per il sollevamento, occorreva unicamente rimettere “in chiaro” le tante sovrastanti funi dei molti paranchi già attrezzati che la tempesta aveva aggrovigliato,
lavoro che un agile “ragno”, come Gilliat sapeva diventare, avrebbe potuto fare nel tempo massimo di un’ora.
Dopodichè si poteva procedere alla delicata conclusione di tanto lavoro: sollevare la macchina e con l’aiuto della bassa marea, posizionarvi sotto la “pancia” per potervela poi adagiare.
La prossima bassa marea si sarebbe verificata verso sera e Gilliat calcolò di approfittarne. Ma avrebbe inziato assai prima la lunga, lenta e delicata operazione di sollevamento, già nelle prime ore del pomeriggio, in modo da poter aver poi il tempo di completare la discesa del greve carico ancora in condizioni di adeguata visibilità, prima che facesse buio.
Dopodichè, il mattino successivo, sperando che il mare gli desse tregua, si sarebbe arrischiato fuori da quel labirinto di infidi scogli e di secche pericolose, con la “pancia” immersa al massimo del suo maggior pescaggio e quindi a gran rischio di scontrarsi con le tante asperità semisommerse. Fino al mare aperto, dove avrebbe finalmente potuto issare le vele, sperando in venti favorevoli dal quadrante Nord, verso l’ambita meta. l’Isola di Guernesì, dove avrebbe potuto cogliere il suo premio più ambito: la bellissima Deruscet !

Ma ora, riposatosi ancora un poco, aveva una verifica da effettuare: che cosa mai celasse quel grosso scrigno che aveva intravvisto nel fondale, in profondità, poco oltre la piccola darsena naturale in cui era ormeggiata la “pancia”, davanti all’ingresso dell’ignota caverna sommersa che mai prima in quei giorni aveva notata...

Fine della quarta parte.
































































































































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