mercoledì 20 luglio 2011

Pelle d'asino


PELLE D’ASINO
(Variazioni e semplificazioni dalla classica fiaba di Perrault)

C'era una voIta un Re molto ricco, forte e felice, che aveva sposato una Principessa tanto bella quanto buona, con la quale vivevano felici e contenti.
I due fortunati sposi avevano avuto una figlia, bellissima ed intelligente.
Il lusso, l'abbondanza, il buon gusto regnavano nel loro castello: i ministri erano saggi e capaci: i cortigiani virtuosi e affezionati: i domestici fidati e laboriosi, le grandi scuderie piene dei più bei cavalli del mondo.
Tra tutti quei magnifici cavalli c’era un Somaro con delle grandissime orecchie. Questo raro animale meritava ogni riguardo, perche’ la natura lo aveva formato in un modo così straordinario e singolare, che tutte le mattine nella sua lettiera, invece di esserci la cacca c’erano sempre tante preziose monete d'oro, che venivano raccolte appena lui si svegliava.
Un giorno, siccome le disgrazie capitano anche ai Re, accadde che la Regina si ammalò, né i medici riuscivano a curarla.
Il Re disperato, tenero di cuore e innamoratissimo, cercava in tutti i modi chi potesse guarire la sua amatissima moglie.

La Regina, sentendo avvicinarsi l'ultim'ora, disse al suo sposo, :"Prima di morire, voglio da te una promessa, nel caso che tu dovessi sposarti ancora...".
A queste parole il Re prese le mani di sua moglie e le bagnò di pianto, dicendo che non doveva neppure pensare a una cosa del genere.
Ma la Regina continuò:"lo Stato ha ragione di pretendere da voi dei successori; e vedendo che io vi ho dato solamente una figlia, vorrà da voi dei figli maschi che vi somiglino: ma io, con tutte le forze dell'anima e per tutto il bene che mi avete voluto, vi domando di aspettare a risposarvi sino a quando avrete trovato una Principessa più bella e più buona di me. Giuratemelo, e morirò contenta.
Il re promise e poco dopo la regina purtroppo morì, con grande dolore e disperazione del re suo marito.
Ma anche i più grandi dolori passano.
D'altra parte, tutto il paese voleva che il Re riprendesse moglie.
Lui disse “va bene”, ma ricordò loro il giuramento fatto alla Regina e sfidò i suoi consiglieri a trovargli una mogile più bella e buona della sua sposa morta, persuaso che sarebbe stato impossibile.
I ministri allora cercarono fra le Principesse da marito.
Ogni giorno gli portavano a vedere i ritratti delle più belle principesse, ma non ce n'era neppur una che avesse le grazie della defunta Regina. E così il re non si decideva mai.

Quand'ecco che per gran disgrazia, sebbene fosse stato fin allora un uomo pien di giudizio, tutto a un tratto il re impazzì e cominciò ad avere una fissazione: siccome la sua giovanissima figlia era più bella della Regina madre, arrivò a dire che era lei che voleva sposare
A questa brutale proposta, la giovane Principessa, un fior di virtù e di pudore, ci mancò poco che non svenisse. Si gettò ai piedi del Re suo padre, e lo scongiurò, con tutte le forze dell'anima, a non costringerla a commettere quel delitto. Ma il Re impazzito, che si era messo in testa questa strana idea, chiamò un vecchio stregone, per convincere la giovane Principessa.
Lo stregone, molto più furbo che capace, ambizioso di diventare il confidente del re, senza farsi scrupolo alcuno fece di tutto per giustificare il delitto che il re impazzito stava per commettere, e lo convinse perfino che sposare la propria figlia era una buona cosa.
Il Re, persuaso dai maligni discorsi dello scellerato, e ordinò alla sua giovane figlia di prepararsi ad ubbidire.
La Principessa straziata dal dolore, scapò via dal castello e andò dalla sua la fata madrina. Partì la sera stessa si di un grazioso calessino, tirato da un grosso montone che conosceva tutte le strade, e arrivò felicemente sino dalla fata, che le voleva molto bene, e che le disse che già sapeva ogni cosa.
Ma disse anche che non doveva temere, perché non poteva accaderle nulla di male, solo che le avesse dato retta.
"Perché, mia cara figlia", le disse la fata Lilla,"sarebbe un grande sproposito sposare tuo padre: ma senza contradirlo, puoi venirne fuori: digli, che se vuole sposarti, deve regalarti un vestito color dell'aria. Con tutta la sua potenza non sarà mai capace di tanto."
La Principessa ringraziò la fata e ripeté al Re suo padre, quello che Lilla le aveva consigliato, dichiarando che senza il vestito color dell'aria non avrebbe mai fatto nulla. Il re chiamò allora i sarti più famosi e ordinò loro quel vestito, con la minaccia che, se non ci fossero riusciti, li avrebbe fatti tutti impiccare.
Il giorno dopo, incredibile ma vero, gli portarono il vestito richiesto, bello come il cielo quando è sparso di nuvole d’oro.
La ragazza ne rimase malissimo e non sapeva più cosa fare.
Scappò di nuovo dalla fata, che fù molto stupita che fossero riusciti a fare quel vestito, ma le suggerì ora di chiedere un altro vestito color della luna.
Il re, che non sapeva negare nulla alla fanciulla, chiamò di nuovo i sarti più bravi e ordinò loro un vestito color della luna, ma che si sbrigassero: doveva essere pronto per il giorno dopo !
E così, incredibilmente fù fatto anche quella volta. La ragazza era proprio disperata, ma la fata Lilla le venne ancora in aiuto e le disse: "O io non ne azzecco più una, oppure ho ragione di credere che se ora gli chiedeste un vestito color del sole ruscirebbero a farlo ! Ma male che la vada, guadagneremo sempre del tempo".

Così la principessa chiese anche quel vestito, color del sole.
Il re, matto innamorato di lei, pagò senza pensarci tutti i diamanti e i rubini della sua corona, con l’ordine di non risparmiare nulla perché anche quel vestito fosse confezionato.
E quando fù pronto e messo in mostra, tutti quelli che lo videro, furono costretti a chiuder gli occhi per il gran bagliore. Figuratevi un po' come rimase la ragazza a quella vista: una cosa più bella e più artisticamente lavorata non s'era vista mai. Ella restò confusa, e col pretesto che le faceva male agli occhi guardarla, si ritirò nella sua camera, dove la fata l'aspettava incredula, al punto che diventò rossa di rabbia e disse:
"Oh, questa volta poi, figlia cara"metteremo tuo padre a una prova terribile. Per quanto lui sia impazzito son sicura che rimarrà molto senza parole alla richiesta che ti consiglio di fargli. Si tratta della pelle di quell'asino, al quale egli vuole un gran bene perché invece della cacca fa monete d’oro in gran quantità, che sono tutta la ricchezza del regno. Vai e digli che vuoi quella pelle." La ragazza allora, tutt'allegra di aver trovato un altra scappatoia, colla speranza che suo padre non avrebbe mai sacrificato l'asino del suo cuore, andò da lui e gli disse chiaro e tondo che voleva la pelle di quel bell'animale.

Il Re rimanesse molto sconcertato per questo capriccio, ma non esitò a contentarla. Il povero asino fu sacrificato e la sua pelle fù donata alla fanciulla sbalordita, che non vedendo più speranza, stava perdendosi d'animo, quando ecco che arrivò la fata: "Cosa fai bambina mia", le disse vedendo la Principessa che si strappava i capelli e si graffiava il bel viso; "Non devi perdere il coraggio ! Indossa la pelle, esci dal castello e fuggi il più lontano possibile. Quando si sacrifica tutto alla virtù, gli Dei sanno ricompensare. Vai, io farò in modo che le tue cose ti seguano dappertutto: in qualunque luogo, dove ti fermerai troverai il baule dei tuoi vestiti e i tuoi gioielli; eccoti la mia bacchetta magica, te la regalo, battendola in terra tutte le volte che avrai bisogno quel che ti serve apparirà ai tuoi occhi. Ma sbrigati a partire, presto !".
La ragazza abbracciò la sua fata, pregandola di non abbandonarla mai; si mise addosso quella brutta pelle, e dopo essersi sporcato il viso di fuliggine per non farsi riconoscere, uscì scappando dal castello.

La sparizione della principessa fece gran chiasso. Il Re, che aveva fatto preparare una magnifica festa, era disperato e mandò più di cento cavalieri e più di mille moschettieri in cerca della figlia: ma la fata, che la proteggeva, la rendeva invisibile agli occhi di tutti.

La ragazza intanto comminava giorno e notte. Andò lontano, sempre più lontano, e cercava dappertutto un lavoro; ma sebbene per carità le dessero un boccone, nessuno voleva saperne di lei, vedendola tanto sporca. Giunse finalmente a una bella città, dove vicino alla porta c'era una fattoria: e la fattoressa aveva appunto bisogno di una donna per i lavoro più umili o pesanti. Vedendola sporca come una zingara, le propose di entrare al suo servizio: e la fanciulla accettò di cuore, stanca com'era di girare. Fu messa in un angolo della cucina, dove i primi giorni dovette patire gli scherzi della bassa servitù, tanto la sua pelle d'asino la rendeva sporca e nauseante. Ma alla fine si stancarono, e poiché lei si mostrava molto svelta e precisa nel suo lavoro, la fattoressa la prese a ben volere.Portava le pecore sui prati per brucar l’erba, guardava i tacchini, faceva tutto con intelligenza, che pareva non avesse fatto altro mestiere in vita sua: ogni cosa fioriva e prosperava fra le sue mani.

Un giorno, mentre era seduta presso una fontana d'acqua limpidissima, dove veniva spesso a piangere la sua sfortuna, vi si specchiò dentro, e l'orribile pelle d'asino, che le serviva da cappello e da vestito, la spaventò. Vergognandosi di trovarsi in quello stato, si lavò ben bene il viso e le mani, che diventarono bianche più dell'avorio, e la sua pelle riprese la freschezza di prima. Il piacere di vedersi così bella le fece voglia di bagnarsi, ma dopo, per tornare alla fattoria si rimise addosso la solita pellaccia d’asino.
L'indomani era giorno di festa, così ebbe tutto il tempo di far comparire, con la bacchetta magica il suo baule dei vestiti, pettinarsi perbene, darsi la cipria e di mettersi il suo bel vestito color dell' aria. La sua camera era così piccina, che non c'entrava nemmeno tutto lo strascico della sottana. La bella Principessa si ammirò allora con tanto piacere che decise da quel momento in poi di mettersi nelle feste e per le domeniche, a uno per volta, tutti i suoi bei vestiti, non foss'altro per darsi un po' di svago.
Intrecciava fiori e diamanti fra i suoi bei capelli, con arte mirabile e spesso sospirava, dispiaciuta che nessuno la vedesse, se non le pecore ed i tacchini.
Un giorno di festa, in cui Pelle d'Asino s'era messa il suo vestito color del sole, il principe, padrone anche della fattoria, ritornando dalla caccia, vi si fermò per prendere un pò di riposo. Era giovane, bello, e gli venne offerta una merenda.
Dopo di che si messe a girare per tutti cortili, guardando un po’ dapertutto. Entrò anche in una buia catapecchia, in fondo alla quale vide una porta chiusa. Per curiosità vi guardò dal buco della serratura e immaginatevi come restò, quando vide la principessa così bella e così riccamente vestita! Per il suo aspetto nobile ed elegante, la prese per una Dea.
La passione, che provò in quell'istante, fu così forte che avrebbe di certo sfondata la porta, se non l'avesse trattenuto il rispetto per l'angelo di ragazza che aveva vista. Venne via veloce per andar subito ad informarsi chi era la persona che stava in quella stanzetta.
Gli risposero che era una servaccia, chiamata Pelle d'Asino, a motivo della pelle colla quale si vestiva, e che era tutta unta e sporca da fare schifo e che l'avevano presa per compassione per mandarla dietro a montoni e tacchini.
Il Principe, poco soddisfatto di questo chiarimento, capì subito che quella gente ordinaria non sapeva nulla, e che era inutile interrogarla.
Se ne tornò al palazzo di suo padre, innamorato cotto, coll'immagine fissa dinanzi agli occhi della bellissima fanciulla che aveva veduto dal buco della serratura.
Si pentiva di non aver picchiato alla porta per incontrarla. Ma per la grande emozione d’amore provata gli venne quella notte una gran febbre, per cui si lamentava di dolore. La Regina sua madre, disperata, vedendo inutili tutti i rimedi, promise ai medici grandi ricompense perché lo guarissero, ma loro, pur adoperavano tutta la loro scienza, non riuscivano a guarire il Principe.
Ma alla fine indovinarono che la malattia derivava da qualche passione segreta, e ne avvertirono la Regina; la quale, tutta tenerezza per suo figlio, lo pregò di raccontarle la causa del suo male, che se lui avesse desiderato in moglie una Principessa, avrebbe fatto qualunque sacrificio perché la potesse avere, ma per carità lo scongiuravano di non lasciarsi morire per quella malattia.
Allora il Principe con un filo di voce le disse: “Ebbene, madre mia, io desidero che Pelle d'Asino mi faccia un dolce: e quando sarà fatto, che mi sia portato." La Regina, sentendo un nome così bizzarro, domandò chi fosse questa Pelle d'Asino. "Signora", rispose uno de' suoi ufficiali, che per caso l'aveva veduta, "è la bestia più brutta, dopo il lupo: un muso tinto, un sudiciume che abita nella vostra fattoria e che custodisce i tacchini." "Questo non vuol dir nulla", disse la Regina, "forse mio figlio tornando da caccia, avrà mangiato della sua pasticceria: sarà un capriccio da malati: ma infine io voglio che questa donna gli faccia subito il dolce che lui vuole" Così fu fatta venire Pelle d'Asino, per ordinarle un dolce per il principe, e ché ci mettesse tutta la sua bravura.

Pelle d'Asino, aveva già visto passare il principe, quanto era bello, ed era tutta contenta di poterlo ora conoscere. Si chiuse nella sua cameretta: gettò via la sua pelle d’asino, si lavò ben bene, pettinò i suoi biondi capelli, s'infilò una bella cintura e una sottana d’argento luccicante, e si mise a fare il dolce richiesto.
Prese fior di farina, uova e burro freschissimo. Ma mentre impastava un anello che aveva al dito finì nella pasta e vi rimase dentro. Appena il dolce fù pronto, indossò ancora l'orribile Pelle d' Asino e consegnò il dolce all'ufficiale, al quale chiese notizie del Principe: ma quello non si degnò nemmeno di rispondere.
Il Principe mangiò golosamente quel dolce, e i medici presenti dissero subito che quella fame non era un buon segno. Difatti ci mancò poco che il Principe non rimanesse strozzato dall'anello, che trovò in una fetta del dolce, ma poi riuscì a cavarselo di bocca,
Guardando il bellissimo smeraldo incastonato nell’anello d'oro, vide che era così piccolo che poteva star bene solo al ditino più grazioso e più affascinante del mondo. Baciò mille volte l'anello, lo messe sotto il capezzale, e ogni tanto, quando credeva di non esser visto da nessuno, lo tirava fuori per guardarlo.
Ma non aveva il coraggio di chiedere che gli portasserò la ragazza, pelle d’asino o come si chiamava, perché lo avrebbero preso per matto.
Questi pensieri lo tormentarono così tanto che gli si tornò la febbre alta, e i medici, non sapendo più che cosa dire, dichiararono alla Regina che il principe era malato d'amore. La Regina andò subito dal figlio, insieme al Re, e non sapevano darsi pace."Figlio, mio caro"disse il Re,"Dicci chi è che tu vuoi, ché noi promettiamo di dartela, fosse anche la più vile fra tutte le schiave della terra."
Il Principe, intenerito dai pianti e dalle carezze disse allora: "Padre mio e madre mia", io sposerò solo la fanciulla che potrà infilare quest'anello al suo ditino, chiunque ella sia".
Il Re e la Regina presero in mano l'anello, lo guardarono attentamente, e finirono col pensare che poteva andar bene, solo a una fanciulla aristocratica di buona famiglia. Il Re, abbracciò il Principe e lo pregò di guarire, poi andò a dare ordini che i suoi banditori ed araldi richiamassero al palazzo tutte le fanciulle da marito per provarsi un anello, e che quella che avrebbe potuto infilarlo avrebbe sposato il principe.
Prima arrivarono le Principesse: poi le Duchesse, le Marchese e le Baronesse; ma nonostante gli sforzi più grandi nessuna riuscì ad infilarsi l'anello.
Arrivarono allora le borghesine, che se pur graziose, avevano dita troppo grosse.
Toccò poi alle cameriere; ma anche loro non riuscirono a mettersi l’anello.
Allora il Principe volle che venissero le cuoche, le sguattere e le pecoraie: tutte gli furono portate davanti, ma i loro ditoni grossi e tozzi non poterono infilare l'anello al di là dell'unghia.

Allora il principe chiese:"È stata fatta venire quella Pelle d'Asino che giorni addietro, mi fece un dolce?". Tutti si messero a ridere e risposero di no, perché era sudicia da far schifo. "Cercatela subito", disse il Re, "non sarà detto mai che io abbia fatta una sola eccezione." Ridendo e burlando, corsero in cerca della tacchinaia. La ragazza, che aveva sentito i tamburi e il bando degli araldi , s'era già figurata che il suo anello fosse la causa di tutta questa confusione.
Amava il Principe, e temeva che qualche dama avesse un ditino piccolo come il suo, così fù molto contenta quando infine vennero a cercarla.
Dal momento che era venuta a sapere che cercavano un ditino al quale andasse bene il suo anello, aveva preso a pettinarsi con più cura del solito e a mettersi il suo bel busto d'argento, con la sottana tutta balze e ricami d'argento e di smeraldi. Appena sentì che la cercavano per andare dal Re, si nascose però nella sua pelle d'asino. Gli uomini di corte, pigliandola in giro, le dissero che il Re la cercava, per farle sposare suo figlio; quindi in mezzo alle più matte risate, la portarono dal Principe: il quale, anche lui stupefatto dallo strano abbigliamento della fanciulla, non voleva credere che fosse quella medesima che aveva veduto coi propri occhi, così sfolgorante così bella! Triste e confuso per il suo sbaglio le chiese: "Siete voi che abitate nella buia catapecchia in fondo al cortile della fattoria?". "Sissignore!", rispose. "Fatemi vedere la vostra mano", disse egli tremando e con un grosso sospiro.
Grandissima fu allora la meraviglia di tutti, quando videro uscir fuori da sotto a quella pelle sporca e bisunta, una manina delicata, bianca e color di rosa, dove l'anello s’infilò senza nessuna fatica nel più bel ditino del mondo!
Poi, per un leggero movimento fatto dalla ragazza, la pelle cadde, ed ella apparve in tutta la sua abbagliante bellezza !
Il Principe, sebbene ancora molto debole, si gettò ai suoi piedi e l'abbracciò con tanto ardore, che la fece arrossire; ma nessuno quasi se ne accorse, perché anche il Re e la Regina vennero ad abbracciarla con grandissima tenerezza, e le chiesero se fosse contenta di sposare il loro figliuolo. La Principessa, confusa da tante carezze e dall'amore che le dimostrava questo bel Principe, stava per ringraziare, quand'ecco che il soffitto della sala si aprì per magia, e ne scese la fata Lilla,
su di una carrozza intrecciata di fiori !
Così la fata raccontò con molta grazia tutta la storia della fanciulla.
Il Re e la Regina furono molto contenti di sapere che Pelle d'Asino era una gran principessa, ma per il Principe non aveva importanza, essendo già perdutamente innamorato di quella ragazza.. La sua impazienza di sposarla era così forte, che non lasciò nemmeno il tempo di fare i preparativi per le nozze regali.
Il Re e la Regina, anche loro innamorati della fanciulla, le facevano mille carezze e la tenevano sempre stretta fra le loro braccia.
Ma lei aveva dichiarato che non poteva sposare il Principe senza il consenso del Re suo padre; che perciò fu il primo ad essere invitato, senza dirgli per altro il nome della sposa: la fata Lilla che controllava ogni cosa, aveva voluto così, per evitare brutte sorprese. Arrivarono Principi e Re da tutti i paesi; su grandi carrozze dorate, a cavallo di elefanti, perfino di tigri e di aquile; ma il più magnifico di tutti fu il padre della ragazza, che arrivò a cavallo di un drago ! Per fortuna nel frattempo era rinsavito, aveva dimenticato la sua innaturale fissazione per lei e aveva sposato una Regina, vedova e molto bella.
La ragazza andò a incontrarlo; ed egli la riconobbe subito e l'abbracciò con gran tenerezza. Il Re e la Regina gli presentarono il loro figlio, al quale egli fece tanti complimenti.

Le nozze furono celebrate con grandissima ricchezza, ma i giovani sposi, incuranti di tutte quelle magnificenze, non vedevano e non pensavano ad altro che al loro amore. Il Re, padre del Principe, fece incoronare suo figlio lo stesso giorno, e baciandogli la mano, lo collocò sul trono al suo posto, malgrado lui non volesse, ma doveva ubbidire. Le feste di quel grande matrimonio durarono più di tre mesi; ma l'amore dei giovani sposi durò molto più a lungo, tanto finchè vissero, felici e contenti, per tanti, tanti, tantissimi anni.

Naturalmente anche io fui invitato a quel matrimonio grandioso, per raccontare qualcuna delle mie favole. E in cambio mi feci dare dalla giovane sposa la sua vecchia pelle d’asino unta e bisunta: la conservo nel Museo delle Fiabe e se venite a trovarmi ve la farò vedere.
Insieme alla mela avvelenata di Biancaneve, alla scarpetta smarrita di Cenerentola, all’ombra di Peter Pan, alla piuma fatata che faceva volare Dumbo, alla spada nella roccia di re Artù, al capello magico di Topolino apprendista stregone, al collari di Lilli e del Vagabondo, all’arco di Robin Hood, al Bianconiglio di Alice, al fuso che punse Aurora, la bella addormentata, ecc…, ecc…, ecc…

Nonnorso.

venerdì 15 luglio 2011

musica maestro

Un bellissimo Cartoon Disney dal lungo metraggio "Musica Maestro" del 1947: jazz, swing and bogi bogi...
Una rarità per gli amatori del genere, ma anche per i più piccoli
(assai meglio di Barbablù, che comunque è piaciuto moltissimo alla mia nipotina di neppure 5 anni).
5 minuti di relax, qui sotto

lunedì 11 luglio 2011

BARBABLU'


BARBABLU'
(favola modificata dall'originale di Perrault)

C'era una volta un uomo molto ricco, che aveva castelli, tesori e carrozze d'oro, ma per sua disgrazia aveva la barba blu: ciò che lo faceva così brutto e spaventoso, che ogni donna o ragazza, soltanto a vederlo, non fuggiva per la paura.
Fra le sue vicine, c'era una gran dama, che aveva due figlie bellissime. Barbablù ne chiese una in moglie, lasciando alla madre la scelta di quale avesse voluto dargli, ma le ragazze non volevano saperne di sposare quel mostro. Barbablù inoltre aveva già sposato diverse donne, che presto erano...sparite e dii loro non s'era saputo più nulla !
Allora Barbablu, per cercare di sposare una delle ragazze le invitò, insieme alla madre, alcune loro amiche ed altri giovinotti, in un suo castello, per fare belle passeggiate, partite di caccia e pesca, balli, festini e merende, dove tutti si divertirono molto.
Così infine la figlia minore decise che Barbablù non aveva la barba...troppo blu, che era persona perbene e gentile.
Tornati da quella vacanza, si fecero allora le nozze.

Ma dopo un mese, Barbablù disse alla giovane moglie che doveva partire per un affare importante e restar lontano alcune settimane.
La pregò di stare allegra durante la sua assenza: che invitasse le sue amiche del cuore, che le portasse in campagna, se voleva...che facesse tutto quello che le piaceva! Le diede le chiavi di tutta la casa, tra le quali c'era però una piccola chiave, di stanzina in fondo al corridoio del pian terreno. Ecco, le disse, sei Padrona di aprir tutto, di andare dappertutto: ma non in quella stanzetta: ti proibisco assolutamente d'entrarci! Se tu lo facessi mi arrabbierei moltissimo !
Detto questo Barbablù l'abbraccio e partì per il suo viaggio.

Le vicine e le amiche non aspettarono di essere invitate per andare a far fisita alla sposina rimasta sola, avevano voglia di curiosare tutte le ricchezze del suo castello, che si misero a girare in lungo e in largo per vedere la bellezza e la gran quantità dei parati, dei tappeti, dei mobili e dei grandi specchi. Non finivano mai di magnificare ed invidiare la felicità della loro amica, che invece non si divertiva molto per tutte quelle ricchezze, tormentata invece dalla gran curiosità di andare a vedere cosa nascondesse la stanzina del pian terreno...
Finchè non riuscì più resistere e arrivò alla porta della stanzina, si fermò un momento, ripensando alla proibizione del marito, per la paura delle sue minacce, ma infine la tentazione fu più forte di lei: prese la chiave, e tremando come una foglia aprì la porta proibita.
Dapprincipio non poté vedere nulla perché era tutto buio la dentro ma poi i suoi occhi si abituarono al buio e vide un lungo e stretto corridoio, in fondo al quale c'era un'altra scala, ripida e stretta, che scendeva nei sotterranei del castello. Quando giunse in fondo anche a quella scala buia, cominciò a sentire dei lamenti, dei pianti disperati... Andò ancora avanti, per un altro buio e stretto corridoio ai cui lati si aprivano tante porte di ferro, come quelle di una prigione, e dietro ogni porta si udivano pianti, lamenti, grida!
La ragazza si avvicinò ad una di quelle porte e ne aprì lo spioncino che permetteva di guardarvi dentro: vide una povera donna, tutta vestita di stracci, la pelle sciupata dall'oscurità, il viso come una maschera di dolore, che subito si avvicinò alla porta chiusa gridando: "Chi sei ? Sei venuta a liberarmi, ti prego, apri questa porta !" La ragazza rispose: "sono la moglie di Barbablù, non posso aprirti perchè non ho le chiavi, ma tu chi sei ?" E l'altra, dentro la sua prigione, si mise ad urlare "Ah meschina che sei, anche tu finirai qui dentro, prigioniera in una cella, come tutte noi altre! Anche noi siamo tutte mogli di Barbablù: lui ci ha spsosate, una dopo la'altra e poi ci ha rinchiuse qua dentro. Siamo sette, tu sei l'ottava e quando ritornerà ed avrà scoperto che gli hai disobbedito aprendo anche tu la porticina proibita, sbatterà anche te qui dentro, in una cella, prigioniera per sempre"!

La dentro dunque c'erano tutte le donne che Barbablu aveva sposate, e poi imprigionate nelle segrete del castello. La ragazza terrorizzata, quasi morì dalla paura. Poi quando si fu un pò ripresa, scappò risalendo fino alla sua camera. Ma era tanto agitata che non riusciva più a calmarsi. Si accorse che la chiave proibita si era macchiata di rosso: cercò disperatamente di ripulirla, insisetndo più volte, ma il rosso non voleva andar via. Cercò di lavarla e strofinarla con sabbia e gesso, ma il colore era sempre lì, perché la chiave era fatata e non c'era verso di pulirla: quando il rosso spariva da una parte, usciva subito fuori da quell'altra.

Barbablu tornò dal suo viaggio quella sera stessa, raccontando che per la strada aveva saputo che l'affare per cui era partito era già stato risolto al meglio per lui. La moglie fece di tutto per fargli credere che era molto contenta del suo ritorno, ma il giorno dopo il marito le chiese le chiavi. Lei gliele consegnò, ma la sua mano tremava tanto, che Barbablù poté indovinare senza fatica cosa era accaduto.
"Come mai", lui disse"che fra tutte le chiavi manca quella della stanzina?" "Si vede", lei rispose, "che l'avrò lasciata di sopra, sul mio tavolino." "Bada bene", disse Barbablu, "che la voglio subito."
Visto inutile ogni pretesto per rimandare, la moglie dovette rendergli la chiave. Barbablu, dopo averla guardata, domandò alla moglie: "Come mai su questa chiave c'è del rosso?". "Non lo so davvero", rispose la povera ragazza, più bianca della morte. "Ah! Non lo sai, eh!", disse Barbablu, "ma lo so ben io! Sei voluta entrare nella stanzina!
Ebbene, cara mia, ora anche tu ci entrerai per sempre, restandoci insieme alle altre donne prigioniere, che hai visto là dentro."
Lei si gettò ai piedi del marito piangendo e chiedendo perdono, dicendosi pentita di aver disubbidito. Bella e addolorata com'era faceva veramente pena, ma Barbablu aveva il cuore più duro dei un macigno. "Devi scendere a marcire nelle segrete del castello, signora", le disse."La ragazza allora rispose con gli occhi pieni di pianto "Poiché mi tocca a sparire per sempre, dammi almeno il tempo di prendere le mie cose". "Ti concedo dieci minuti: non di più", le rispose il marito.
Appena rimasta sola, chiamò sua sorella e le disse: "Anna", sorella mia, ti prego, sali su in cima alla torre per vedere se per caso arrivano i miei fratelli; mi hanno promesso che oggi sarebbero venuti a trovarmi; se li vedi, fà loro segno ché si affrettino a più non posso". La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera sconsolata le gridava di tanto in tanto: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi arrivare nessuno?".
"Non vedo altro che il sole e la distesa dei prati intorni al castello."
Intanto Barba-blu, spazientito, gridava con quanta voce aveva ne' polmoni: "Scendi subito, se no, salgo io !". "Un altro minuto, per carità" rispondeva la moglie. E di nuovo si metteva a gridare con voce soffocata: "Anna, Anna, sorella mia, non arriva dunque nessuno?".
"Non vedo altro che il sole ed i prati." Era ancora la rsiposta.
"Spicciati a scendere", urlava Barbablu, "Se no salgo io." "Eccomi" rispondeva la ragazza; e poi di nuovo gridava: "Anna, Anna, sorella mia, non li vedi arrivare?". "Vedo" rispose la sorella Anna, "un gran polverone che viene verso questa parte..." "Sono forse i miei fratelli? " "Ahimè no, sorella: è un branco di caproni.
"Insomma vuoi scendere, sì o no?", urlava Barbablu. "Ancora un momentino" rispondeva la moglie: e tornava a gridare: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi dunque nessuno?". "Vedo" ella rispose "due cavalieri in arrivo: ma sono ancora molto lontani." "Sia ringraziato Iddio", aggiunse un minuto dopo, "sono proprio i nostri fratelli: ora gli faccio tutti i segni che posso, perché si spiccino e arrivino presto."

Intanto Barbablu si messe a gridare così forte, che fece tremare tutta la casa. La povera donna allora scese e tutta scapigliata e piangente andò a gettarsi ai suoi piedi. "Sono inutili i piagnistei", le disse Barbablu,
"Ti devo rinchiudere". Quindi pigliandola per i capelli cominciò a trascinarla verso le segrete. La poverina, voltandosi verso di lui e guardandolo disperata, gli chiese ancoraun ultimo istante...
"No, no!", gridò Barbablù, "Ora basta, andiamo!".

Ma a quel punto bussarono così forte alla porta del castello, che Barbablu si fermò e appena aperto, entrarono due cavalieri, che sfoderata la spada si gettarono su di lui. Barbablù riconobbe subito i fratelli di sua moglie, due valorosi guerrieri ! Allora per mettersi in salvo cercò di fuggire. Ma i due fratelli lo inseguirono e lo raggiunsero prima che potesse arrivare in un qualche rifugio.
E così, con la spada lo passarono da parte a parte e lo lasciarono a terra, finalmente morto, come si meritava !
La fanciulla poverina, era quasi morta anche lei, e non aveva più neanche la forza di alzarsi per abbracciare i suoi fratelli.
Poi raccontò loro cosa aveva scoperto e li accompagnò a liberare le altre mogli del mostro, povere prigioniere nelle segrete del castello, che tornarono così finalmente a vivere libere.
Si misero poi tutte d'accordo per dividersi tra di loro le tante ricchezze che erano appartenute a Barbablù.
Divennero anche tutte buone amiche e dopo qualche tempo fecero una gran festa, invitandovi molti baldi giovani che le volessero incontrare.
Furono fortunate perchè trovarono così degli ottimi amici, con cui poi si fidanzarono ed infine fecero un grande festa di nozze al castello, alla quale parteciparono più di mille invitati, per festeggiare le otto spose, che già erano state tutte sfortunate mogli del mostro Barbablù, tutte sopravissute e liberate dalla prigione del castello.

Anch'io andai a quella grande festa, trovandomi da quelle parti. Volli anche vedere la porticina proibita e le segrete del castello: che erano poi state trasformate in deliziose cantine, dove venivano custoditi vini e salami pregiati !
Chiesi allora di esservi rinchiuso per qualche tempo e vi assicuro che apprezzai molto quella prigionia...in compagnia di tante bottiglie di buon vino e di salami molto saporiti !

nonnorso








domenica 3 luglio 2011

Gilliat...il mostro 5^ ed ultima parte

gli scogli delle Douvres

GILLIAT...IL MOSTRO
Quinta ed ultima parte.

Gilliat attese il tempo necessario a digerire il lauto pranzo a base di cernia ai ferri che finalmente lo aveva sfamato. Restò per un pò seduto al sole, su di una cengia del più alto scoglio della Druve, contravenendo così per la prima volta da quando vi era sbarcato, all'ossessiva determinazione di lavoro senza respiro, per realizzare quell'impresa impossibile...
Poi si alzò, si stiracchio godendosi il tiepido calore del sole e la piacevole sensazione di pienezza che gli aveva reso il pasto consumato.
Quindi, modificando la scaletta dei lavori che aveva mentalmente prgrammata, visto che era già lassù, accanto al ponte di sollevamento,
si dedicò a sbrogliare le funi dei paranchi incattivite dalla tempesta, rimettendole in chiaro.
Infine, con il sole ancora alto poco oltre lo Zenit, scese per effettuare l'immersione in programma: ripescare quello scrigno intravisto sul fondale e svelarne il contenuto. Arrivo sul piatto scoglio di granito accanto alla "pancia", si spoglio del solo camiciotto, mantenendo il fido coltellaccio al suo fianco, nella cintura dei pantaloni. Fece alcuni esercizi di iperventilazione per accumulare più ossigeno possibile nei polmoni e dallo scoglio direttamente si tuffò verso l'abissso. Sulla spinta del tuffo fù velocemente sul fondale, senza fatica, tranne quella minima di compensare la crescente pressione durante la discesa.
Si accorse arrivando in profondità che il forte abbrivio lo aveva spinto oltre lo scrigno, ritrovandosi già all'ingresso della caverna.
Avendo allora ancora tutte le forze e riserve d'aria praticamente intatte ne approfittò per entrarvi ed esplorarla rapidamente.

Non esiste pescatore apneista che riesca a sottrarsi al fascino di simili visite, essendo gli antri sottomarini perlopiù ricchi di atmosfera, spesso di affascinanti visioni o perfino di misteriosi segreti.
Gilliat era così anche lui: forse ancor più atratto per il suo spirito avventuroso, l'intelligenza curiosa e la generosità vitale, che lo rendevano incline ad allargare ogni esperienza in ambito "naturale".
Trattandosi poi di un ambiente "marino"ciò era da lui sentito quasi come un dovere !
Penetrò così l'accesso di quel buio antro, sito a circa 10 metri di profondità, all'interno del quale la penombra resisteva alle tenebre: subito notò in fondo al buio della caverna una luce discendente dall'alto, sicuramente da un altro accesso posto in un'altra zona della scogliera. Troppo lontano comunque per poter pensare in quel momento di raggiungerla. Si limitò ad avanzare di qualche metro guardandosi intorno, ma subito con raccapriccio lo vide, chiaro e netto a due metri alla sua destra: uno scheletro bianco dal teschio macabramente ridanciano, solo in parte coperto dai pochi stracci che residuavano dai suoi vestiti.
Vinto l'attimo di stupito terrore, con una lieve sforbiciata di gambe gli fù subito sopra e notò tra quelle ossa, tra le costole vicino al cranio, un medaglione legato ad una collana di cuoio. Rabbrividendo allungò una mano per afferrarlo, mentre con l'altra, che già aveva impugnato il coltello, provvide a tagliare la striscia di cuoio che lo tratteneva.
Infilò rapidamente il reperto nella tasca dei pantaloni per averla libera nel nuoto e si voltò per uscire fuori da quella grotta...spettrale...e ritornare verso la scrigno, che sapeva subito li fuori, recuperarlo e quindi risalire.
Ma mentre già sporgeva la testa fuori dalla caverna sentì il terribile, inesorabile avvolgersi di un tentacolo intorno ad una gamba e poi subito, mentre si voltava anche intorno all'altra ! La formidabile presa gli lo aveva ormai gremito sino alle cosce, risucchiando voracemente la sua carne, nonostante fosse coperta dalla pesante tela delle braghe da marinaio, in una presa indisolubile.
Mentre si voltava Gilliat aveva già estratto il suo affilato e seghettato pugnale da pesca, 30 centimetri di lama, con cui riusciva all’occorrenza perfino a finire grossi tonni e pesci spada che si dibattevano nella sua rete o minacciavano di strappare le sue lenze.
Il mostro era sopra di lui, un enorme piovra tentacolare con occhi enormi e feroci e dal lungo becco acuminato, che avrebbe cercato di piantargli nel petto per risucchiargli, con una forza di aspirazione terribile, tutto il suo sangue, tutta la sua linfa vitale, ed infine ogni carne molle, sino a ridurlo come quel signore che aveva appena incontrato, sdraiato all'ingresso dell'antro fatale, la tana del mostro.
Gilliat partì subito a colpirlo, forte e veloce, cercando di recidere le spire che già imprigionavano le sue gambe, attento tuttavia a non ferire se stesso !
Ma subito senti un altro tentacolo avvolgergli il tronco, a partire dalla schiena, attorno al torace, fino al collo ! Ed un altro ancora afferrargli il braccio sinistro...
Il mostro lo attirava a se, alla suo orrido becco disgustoso, guardandolo con occhi sempre più grandi e terribili...
A quel punto Gilliat sapeva di avere una sola possibilità ed a quell'unica, flebile chançe doveva ricorrere nel disperato tentativo di sottrarsi alla belva vorace.
Lui conosceva bene le caratteristiche fisiche di quella specie animale,
tanti ne aveva pescati, sopratutto tra gli scogli, ma mai di dimensioni ancorchè vagamente comparabili a quel gigantesco esemplare con cui stava lottando. I più grandi che ricordava di aver pescato superavano di poco i due metri, misurandone la massima estensione dei tentacoli.
Solo nelle leggende dei pescatori aveva sentito narrare di bestie così gigantesche, verificate solo grazie alle loro spoglie, ritrovate lungo le spiagge, ivi trasportate dalle tempeste marine.
La belva che ora lo stava mortalmente serrando superava certamente i dieci metri !
Gilliat ormai stava arrivando ai limiti dell'apnea, il suo braccio che brandiva il coltello era ancora libero, ma lo sarebbe rimasto per poco…
Concentrò rapidissimamente ogni sua attenzione, ogni forza residua e tutta la lucidità della mente nel vibrare il colpo mortale alla base della testa del mostro, subito accanto alla bocca adunca armata di pungiglione. Gilliat sapeva che in quel punto aveva sede la sua prodigiosa "pompa", che permetteva alla belva quell'enorme forza aspirante.
Giunto a portata del fatale bersaglio, mentre già il mostro gli stava lanciando l'ennesimo tentacolo che gli avrebbe bloccato anche l'unico arto libero, protendedo su di lui l’orribile rostro, Gilliat vibrò il colpo della disperazione, veloce, fortissimo …inesorabile.
Istantaneamente quell'enorme corpo si afflosciò, svuotandosi come un sacco ! Le ventose che lo risucchiavano si allentarono, i tentacoli caddero ormai privi di forza e gli occhi terribili si spensero in una nuvola nera di liquido umore che dalla belva, mortalmente colpita, usciva offuscando l’acqua tutto intorno.
Gilliat scrollo via quel pesante groviglio, mostruoso ed ammosciato e guizzando in rapidi, lunghi movimenti di gambe e braccia raggiunse presto la superfice, l'aria !
Che inalò in totale abbondanza e con estrema ingordigia, per diversi, molti minuti, all'inizio ansimando e poi via, via, con più lenti e lunghi sospiri.
Restando nell’acqua salmastra lavò e massaggiò a lungo i tanti punti del suo corpo martoriati dalle terribili ventose. Salì infine sullo scoglio vicino, accanto alla “pancia”, spossato dal terribile sforzo, dal grande stress subito nell’impari lotta che lo aveva infine visto vincitore ma in cui era stato ad un pelo dal soccombere…

Come era accaduto sicuramente alla persona il cui scheletro Gilliat aveva rinvenuto nella caverna sommersa. Ricordandola si frugò nella tasca e ne trasse il medaglione di bronzo recuperato da quei resti.
Lo guardò bene stringendo gli occhi ancora accecati dal salmastro, nel luccichio riflesso di sole e mare, indicava una scritta: “Alphonse Cublin, comandante piroscafo Durand” !
Gilliat potè così ricostruire il dramma di quel naufrago, finito tra gli scogli in tempesta delle Druve, che forse tentava di salvarsi ma era finito inesorabilmente preda del mostro gigante. Ricordò quindi la presenza dello scrigno ancora sul fondale.
Gli rimaneva ancora quel recupero, prima di procedere alla fase finale del salvatggio della preziosa macchina, compito ormai lieve, dato che il terribile custode dello scrigno era già stato eliminato.
Gilliat procurò una fune, la legò allo scoglio e con l’altro capo legato intorno alla vita si tuffò nuovamente, direttamente dall’alto.
Fù subito sul fondo, accanto allo scrigno, attorno al quale legò la fune e poi risalì svelto in superfice per poi recuperarlo. Non era enorme ma assai pesante e per aprirlo dovette forzarne la serratura con il coltello: subito rimase abbagliato dall’intensa luminosità dei preziosi che conteneva, monili d’oro, diamanti ed altre pietre preziose, oltre a tante monete d’oro zecchino.
Gilliat non si domandò la provenienza di quella grande richezza, non aveva appigli ne motivi per formulare ipotesi, né aveva tempo per congetture. Ma mentre lo riponeva al sicuro nell’angolo più protetto del gavone della sua barca, rammentò vagamente la storia che aveva udito anni primi, di un tesoro rubato a Mastro Letierrì da un suo nostromo alcuni anni addietro…

Ma Gilliat ora aveva ben altro cui dedicarsi. Il sole era ormai oltre lo zenit e la bassa marea incombeva: bisognava provvedere senza indugi al sollevamento della macchina !
Operazione estremamente complessa e delicata, fondamentale, cui immediatamente si dedicò con la massima attenzione. La macchina era già completamente imbragata a dovere e le funi dei paranchi erano già state tutte risistemate in chiaro dopo la tempesta. Gilliat inizio allora il sollevamento, tirando le numerose funi un po’ alla volta, un breve tratto per ciascuna, saltando da un lato a quello opposto ed incrociando via, via i momenti di trazione, così da mantenere in piano equilibrio tutto quell’enorme, pesante apparato motore. Lo sforzo che doveva compiere non era indifferente, se pur assai rapportato: per ogni metro di fune che traeva il peso si sollevava neppure di un centimetro, così accadeva che presto la fune finisse ed occorreva recuperarla per ripristinarla, operazione quanto mai complicata nell’intricato sistema di pulegge che permetteva il sollevamento.
Lentamente, lentissimamente Gilliat vide emergere dall’acqua la macchina che, man mano ne usciva…aumentando il suo peso a causa di quel principio teorizzato migliaia di anni prima da uno scenziato della Magna Grecia, tale Archimede, a lui totalmente sconosciuto. Che aveva ugualmente teorizzato i principi della leva, basi fondamentali dei paranchi che Gilliat stava utilizzando per sollevare quella grande macchina: “datemi un punto di apoggio e con una leva sufficientemente lunga e robusta vi solleverò il mondo, aveva citato Archimede oltre 2000 anni prima...
Ed il mondo intero gli pareva stesse sollevando Gilliat, per l’enorme, lunghissimo sforzo che lo stava impegnando sino allo stremo !
Quando dopo alcune ore di quell'epico lavoro la macchina fù completamente fuori dal mare, Gilliat seppe che …aveva ancora almeno un’altra ora di lavoro. Bisognava infatti issarla ad un’altezza tale da potervi sotto introdurre la “pancia” su cui caricarla. Ma lo aiutò infine la marea: era ormai ora in cui la Luna, grande calamita del cielo sopra la terra, posizionata oltre l’orizzonte, a 90 gradi dallo Zenit delle Druve, avrebbe attirato gli Oceani, sollevandoli verso di se e quindi abbassandoli altrove. E la marea quella sera fù provvidenzialmente molto bassa, scoprendo gran parte degli scogli affioranti, così che Gilliat ebbe infine modo di saltare sulla “pancia”, levarne gli ormeggi fermi da settimane e remando con cautela nel breve tratto, comunque irto di secche affioranti tra le Druve, posizionarla, accuratamente ormeggiandola esattamente sotto la macchina, perfettamente in linea con il carico a bordo. Carico che avrebbe comunque poi aggiustato man mano che si fosse avvicinato alla stiva della barca che doveva riceverlo.

Gilliat si prese a quel punto un breve, meritatissimo riposo; mangiò parte della grande Cernia che aveva avanzato a pranzo e bevve acqua piovana, già recuperata dalle pozze in cima alle Druve, dove il sale degli spruzzi delle onde era meno presente, quella stivata nel bidone essendo ormai da giorni terminata.
Il giovane, mitico eroe era ridotto ad una sorta di spettro muscoloso, totalmente privo di grassi, in parte emaciato, gli occhi rossi ed infossati, i capelli ispidi ed infeltriti dal sale, la pelle ruvida, scalfita dalle intemperie marine, le unghie rosicchiate dagli scogli, gli arti, la schiena ed il torace piagati da mille urti accidentalmente subiti ed ora anche dall’atroce risucchio delle terribili ventose del mostro. Ma aveva ancora in se una forza incredibile, che gli veniva dallo spirito valoroso, indomito, dalla mistica fede nel risultato che solo appartiene al grande guerriero invincibile, assolutamente determinato alla vittoria oppure…alla morte.
E la vittoria per lui aveva un volto: quello soave, bellissimo di Deruscet

Drouet, amante di V:Hugo, cui si ispirò per il personaggio di Deruscet

Si prese quel riposo anche perché ora poteva attendere il determinante aiuto dell’alta marea, che sollevando la “pancia” vi avrebbe quasi automaticamente caricato la grande mole della macchina a vapore.
E così fù: Gilliat ebbe allora il compito assai più lieve, di mollare gradualmente tutte le funi dei paranchi attrezzati, ma soprattutto quello molto più delicato ed impegnativo di far si che il carico scendesse esattamente, perfettamente centrato, nell’incavo della stiva della “pancia”!
Operazione che terminò con successo nella tarda penombra di un sole ormai da tempo tramontato, luce scarsa, tuttavia sufficiente a Gilliat, ormai divenuto anche “felino” nell’uso della vista notturna.
La barca con il suo preziosissimo carico era già ormeggiata al meglio possibile, ma per maggior sicurezza Gilliat lasciò ancora in moderata tensione tutte le funi dei paranchi che lo legavano al sovrastante ponte di carico abilmente costruito tra le Druve.
E dopo quell’ultima, forse più epica giornata di lotta e di lavoro, risalì nella sua tana di roccia, finalmente per riposare.

Gilliat era sparito da Guernesì, senza che nessuno ne notasse quasi l’assenza, mentre l’attenzione generale rimase a lungo catturata dal naufragio della Durand: per giorni non si parlò d’altro, sprecandosi ogni oziosa congettura su come Messer Cublen avesse potuto, contrariamente alla sua fama di marinaio accorto e prudente, ripartire da Dover in quel giorno di fitta nebbia ed infido mare per avventurarsi alla cieca nel dedalo di scogli e secche che rendono quel mare tanto pericoloso.
Come avesse potuto…, ebbene nessuno sapeva spiegarselo.
Comunque era a tutti evidente che aveva pagato con la vita l’errore commesso, qualunque ne fosse l’esatta natura. E purtroppo non solo con la sua vita !
Mastro Letierrì, senza pace, assai sofferente per la gravissima perdita del suo Pirsocafo, molto lentamente sembrava rassegnarsi, consolato in ogni mdo dalle donne di casa, soprattutto dalla diletta Deruscet.

Che tuttavia aveva già segretamente recepito un ottimo motivo di distrazione nella persona del giovane nuovo ministro del culto protestante, venuto e reggere la parocchia di Guernesì, sostituendo l’anziano titolare, oramai in età per la pensione.
Entrambi, l’anziano prelato uscente ed il nuovo, giovane sostituto, avevano fatto un giro di presentazione presso le famiglie dei notabili di Guernesì, e Mastro Letierrì fù uno dei primi che andarono a trovare.
Il nuovo pastore era un bel giovine, alto, slanciato, biondo di capelli con occhi cerulei, dai dolci lineamenti e modi compiti, eleganti ma senza affetazione. Pareva un Arcangelo disceso dal Paradiso.
L’incotro con la soave, non meno angelica Deruscet, fù una sorta di fulmine per entrambi: si videro, si riconobbero per le loro fattezze tra gli eletti e si amarono, così, a prima vista, senza nulla dirsi ed ancor meno fare, se non guardarsi con reciproco rapimento !
Ciò che ebbe poi a ripetersi in varie altre occasioni, in Chiesa o altrove. Occasioni in parte cercate, volute da entrambi, prima inconsciamente, poi con crescente, determinata consapevolezza.
Così che presto il reciproco interesse fù palese non solo a loro due.
Di certo non fù colto da Mastro Letierrì, troppo ottenebrato dal suo dolore, che se tuttavia l’avesse notato non l’avrebbe approvato, essendo da sempre suo preciso disegno avere un genero che fosse anzitutto “marinaio”…e sicuramente non un damerino vestito da prete ! Un marinaio, un capitano per la Durand, il suo piroscafo…
Ma quella nave ora non c’era più !

Era ancora buio, quando nel sonno Gilliat avvertì sul viso scoperto una fredda brezza che s’insinuava fin nel suo cunicolo. Faticosamente risvegliato da quell’alito marino, prese vagamente coscienza che giungeva da Nord, Nord Est e che era insolitamente“fresco”. Subito fù completamente sveglio ed allarmato, ogni senso teso a recepire l’eventuale imminenza del pericolo !
Uscito sulla roccia percepì vagamente nel buio senza stelle una leggera increspatura del mare e la conferma del vento, non ancora teso ma decisamente fresco che soffiava di Grecale. La situazione era sicuramente favorevole, la migliore per un rientro a Guernesì con il vento in poppa ed il mare a favore, quale lui tante volte aveva auspicato. Ma poteva divenire assai pericolosa se vento e mare fossero cresciuti, come sembrava indicare il cielo palesemente coperto.
Gilliat dovette decidere. Rimandare ancora la partenza significava confinarsi ancora, non sapeva quanto a lungo, in quella trappola di scogli dove fino ad allora era assai faticosamente e pericolosamente sopravissuto, lui, la “pancia” ed il prezioso carico. Ora tutto era pronto per il rientro. Gilliat non ebbe dubbi: la decisione era automaticamente già presa.
Velocisssimo recuperò dalle grotte sulle Druve le poche cose ancora utili, soprattutto i suoi attrezzi e li caricò sulla “pancia”, ormai completamente ingombra ed immersa fino alle murate dal pesantissimo carico. L’operazione più lunga fù recidere rapidamente tutte le funi che ancora affrancavano la macchina al ponte di carico, gli argani inclusi.
Nel giro di neppure un’ora, manovrando a remi con grande ansia e fatica in mezzo alle insidie di tutti quegli scogli, fù finalmente in grado di levare le vele, che si gonfiarono d’un botto, gloriosamente tese verso la meta finale: Guernesì.
Per farvi rotta Gilliat si affidò, in assenza di stelle, alla luce dell’alba ormai in arrivo nel lontano, fievole chiarore che ad Est intravedeva. Della bussola a quel punto diffidava, ed a ragione, non essendo tarata per quell’enorme carico di metallo che ora la barca recava, sicuramente in grado di alterarne il magnetismo.

Nonostante il greve carico ne appesantisse oltremodo la linea di dislocamento, la barca procedeva veloce, ad almento sei, sette nodi, tutte le vele armate al gran lasco, sulla spinta decisa della brezza sempre più tesa e della corrente favorevole.
In poche ore Gilliat fù in vista dell’Isola, ne doppiò il capo nei cui pressi si vedeva la sua casa, solitaria, a strapiombo sul mare, e poi dentro, nel lungo seno riparato, sino al porto ancora semideserto per l’ora tuttavia mattutina.

I pochi, marinai e pescatori presenti rimasero sbalorditi per l’incredibile visione di quell’improbabile battello, quell’impossibile scherzo marino che stava attraccando al molo principale, nei pressi della casa di Mastro Letierrì: un barcone a vela, immerso finoalle murate, che recava un grosso, pesante apparato motore di piroscafo, con tanto di ruote !
O meglio: un pesante, enorme motore di Nave a Vapore che avanzava sulla spinta di vele che forse appartenevano ad una qualche barca mimetizzata sotto tutto quell’incombro !
Dopo svariati, lunghi secondi di incredulo stupore, gli astanti capirono e presero ad urlare, dandosi reciprocamente la voce, richiamando ogni altro che ancora dormisse, suonando corni e campane di richiamo,
strillando al miracolo incredibile, all’evento epico e magico di tutti i tempi: il motore della Durand era stato strappato agli artigli feroci delle Druve e ora giungeva a Guernesì salvo, intatto, ivi recato sulla sua inverosimile barca a vela da Gilliat, il “Bu de la rue”, il solitario marinaio pescatore in fama di stregoneria e diabolici sortilegi.
Ciò che superava di gran lunga ogni possibile altra diavoleria che si potesse immaginare !

Preoccupato da tutto quel clamore che stava sollevando Gilliat si defilò velocemente. Saldamente ormeggiata al molo la “pancia”, con il suo vistoso carico, dove solitamente attracava la Durand, l’eroe provato di tanta impresa, stanco, tirato e consunto, si avviò verso casa per un ben meritato riposo.
E quando si coricò sul suo rigido giaciglio di paglia e di crini, gli parve fosse il più soffice, comodo ed accogliente materasso di piume...dopo le diverse settimane in cui aveva dormito in un cunicolo di nuda roccia.

Mastro Letierrì fù strappato quasi a forza al sonno agitato in cui continuava a rivivere senza fine il drammatico naufragio della Durand. Suoni di corni e di campane, voci urlanti che chiamavano il suo nome davanti alla sua porta, sotto casa, lo destarono.
Smarrito, incredulo, allarmato, lentamente cominciò ad afferrare tra quelle grida alcune parole: dicevano della “macchina”, della “Durand”, di un miracoloso, impossibile salvataggio…Chi aveva dunque il corraggio di celiare su quel dramma ?
Rallentato dalla ruggine che al risveglio tende a ristagnare nelle ossa dei vecchi, Mastro Letierrì si alzò, si vestì ed accompagnato dalle donne si affaciò all’uscio di casa, dove una piccola folla insisteva gridando, chiamandolo, invitandolo a venire poco più avanti, al molo antistante dove avrebbe ritrovato il “miarcolo”, l’incredibile sorpresa: la macchina a vapore della Durand salvata dalle Druve, insperabilmente recuperata dal mago stregone, il diabolico Gilliat !
Trascinato da tutta quella gente, claudicando veloce sull’appoggio del bastone, Mastro Letierrì fù ben presto davanti al prodigio. Gli occhi sbarrati, un filo di bava alla bocca tremante per l’enorme, improvvisa emozione, riconobbe subito la sua magnifica, costosissima macchina a vapore, l’unica che ormai da anni aveva regolarmente incrociato in quei mari spingendo la sua nave, la Durand.
Ma di navi si poteva facilmente realizzarne altre, mentre di macchine come quella era ben difficile ed estremamente costoso a quei tempi potersi dotare.
Vinto il tremore che gli aveva preso anche le gambe, Mastro Letierrì si avvicinò al motore, sul bordo del molo, osservandolo attentamente, controllandone a vista ogni angolo, ogni lato, ogni superfice: tutto pareva in ordine, privo di rotture, di ammaccature o graffi. Perfino le ruote motrici, le più delicate ed esposte agli urti, gli parvero sane, in ordine, a parte un paio di longheroni leggermente piegati, ma di facile ripristino.
Fù subito una grande festa, che presto quel giorno propagò in tutta l’Isola ! Ma tra le grida di giubilo, congratulazioni e festeggiamenti Mastro Letierrì non dimenticò l’eroico, l’epico autore dell’impossibile impresa: Gilliat !
Come aveva potuto un uomo evidentemente solo, umile, silenzioso marinaio pescatore, giovane timido e schivo compiere quel miracolo?
Mastro Letierrì voleva saperlo, voleva “conoscerlo”, perché nulla in effetti sapeva di lui, tranne le sue modeste sembianze, avendolo raramente incrociato ed appena risposto al suo rispettoso saluto. Sapeva anche delle dicerie che su di lui correvano, in odore di stregoneria e diavolerie varie, ma a queste cose Mastri Letierrì era alieno, il suo scetticismo essendo confortato da una lunga esperienza di vita, trascorsa in giro per il mondo, dove miti e leggende si sprecano, ma la solida concreta realtà dei fatti è l’unica cosa che infine resta sempre dimostrata.
Ed i fatti erano lì, miracolosamente, felicemente davanti a lui.
Che fine aveva fatto l’attore di tanto prodigio ? Portatemelo dunque, andate a recuperarlo, che io possa abbracciarlo come un figlio, il salvatore che mi ha restituito la vita ! Portatelo qui, che io possa ribadirgli la mia promessa: sarà lui il Comandante del mio nuovo piroscafo, la Durand Seconda, attrezzata con la macchina da lui prodigiosamente recuperata, sarà lui mio genero, il padre dei miei nipotini !

Accanto a Mastro Letierrì, in mezzo alla folla esultante era giunta anche Deruscet, ugualmente strappata dalle braccia di Morfeo, sonno che tuttavia nel suo caso non implicava incubi funesti, ma ben altrimenti era popolato dalle tenere immagini del suo efebico principe azzurro, il leggiadro giovane Pastore arrivato ad assistere i fedeli di Guernesì.
Anche lei stralunata dall’inverosimile ed improvvisa novità non aveva ancora avuto alcun modo di coordinare pensieri ed emozione, né tantomeno ralizzarne le conseguenze. Perciò quando udì l’ultima, stentorea dichiarazione di suo padre, che ribadiva la promessa già fatta, di darla in isposa a chi “mai” avesse compiuto l’impossibile impresa, subito colse la terribile situazione in cui ora si trovava irrimediabilmente calata !
A quella promessa lei stessa aveva formalmente aderito, confermandola con una sua precisa affermazione “…ed io lo sposerò”, riferendosi all’ipotetico autore del miracolo, allora da tutti ritenuto, a ragion veduta, assolutamente improbabile !
Ma ora…l’impossibile era accaduto e lei vi si trovava tragicamente coinvolta…
Così, di fronte a quell’imporvviso incontro con l’inesorabile realtà che drammaticamente ora la riguardava, Deruscet fece banalmente ciò che ogni fanciulla del suo tempo era solita fare, in occasioni anche assai meno sconvolgenti: svenne.
Fatto che fù tranquillamente da tutti attribuito alla forte emozione, alla grande gioia per il lietissimo evento. Ciò che ebbe a confermare il medico, anche lui tra i presenti, che tastatole il polso ne consigliò il consueto allentamento di stringhe e bottoni che ne costringevano strettamente le leggiadre forme negli abiti, risaltandole come di moda, per favorire invece una più adeguata ossigenazione, il trasporto sul divano di casa, ed infine gli inevitabili “sali” da annusare, per favorire la ripresa dei sensi.

Così Gilliat fù strappato dal suo pesante, troppo recente sonno senza sogni, da un gruppo di rumorosi volontari inneggianti al suo nome, sorpreso di non ritrovarsi ancora alloggiato nel cunicolo di roccia in alto mare, sullo scoglio della Druve.
Stralunato e più ancora allibito dalla novità mai prima accaduta, né tantomeno immaginata, di tanta gente che veniva a cercarlo, in tripudio di grida gioiose, che stavano magnificando la sua impresa, il miracolo da lui compiuto.
Incuranti della sua evidente stanchezza, non era neppure un’ora che si era addormentato, lo costrinsero a vestirsi ed a seguirlo, portandolo poi quasi a braccia, in trionfo al cospetto di Mastro Letierrì, dove infine giunse rallentato dai molti cappanelli di gente che voleva complimentarlo, festeggiarlo, toccarlo, domandarlo…

Alla presenza del suo futuro suocero e della sua promessa sposa Gilliat arrivò in condizioni pietose: tuttora stralunato, spaventato dagli eventi in corso come neppure l’ultima, terribile tempesta sulle Druve era riuscita, emaciato ed incavato nel volto, sciupato dalle privazioni, dagli sforzi e dai marosi, i capelli di stoppa infeltrita dopo settimane ininterrotte di salsedine, gli occhi infossati ed arrossati, le labbra spaccate dal sole e dal sale, i rozzi panni da marinaio di fatica raffazzonati su di un corpo cui ormai mancavano una decina di chili al peso forma…
Come avrebbe mai potuto quella sorta di spaventapasseri competere nel cuore di Deruscet con il bellissimo, delicato, slanciato, compito, curatissimo giovane dall’eloquio forbito, Pastore di anime, che la sua anima già aveva ampiamente colta ?
Non c’era storia, non esisteva competizione possibile !
Perfino mastro Letierrì di fronte a quell’immagine rimase disorientato, e faticò a collocarla mentalmente accanto a quella deliziosa, raffinata, leggiadra damina che era sua filgia Deruscet…, ma subito fù oltre, perché già aveva indovinato, almeno in parte, quali terribili prove, tremendi sacrifici e strapazzi quell’eroico giovane avesse dovuto affrontare e subire per riportargli il suo tesoro…
Ma un altro tesoro ancora Gilliat gli portava, che nella concitazione del forzato risveglio non aveva tuttavia dimenticato. Dopo aver subito immobile l’abbraccio paterno di Mastro Letierrì, Gilliat trasse dal pesante sacco che recava appeso tra le mani, lo scringo conteso al Mostro Marino e lo porse a quello che reputava essere il leggittimo proprietario.
Che di nuovo non riuscendo a credere a quanto ancora e di più stava accadendo, subito lo riconobbe. Ma sembrandogli anche questo evento assolutamente impossibile, guardò Gilliat con aria smarrita ed interrogativa…Gilliat quasi sorrise ed ebbe un minimo cenno di affermazione, quasi riflesso, con il capo…
Mastro Letierrì prese allora quello scrigno, lo pose sul tavolo della grande sala stracolma di gente, e di fronte a tutti quei testimoni lo aprì, abbagliandoli con il luccichio dei preziosi che conteneva : si, era il suo “tesoro”, il frutto di risparmi di una vita intraprendente, labiorosa ed avventurosa, investito in quei monili, che gli furono anni prima proditoriamente sottratti dall’infido ladro, un suo nostromo canaglia, invano poi ricercato ovunque fosse possibile.

Non trovando più parole per magnificare le imprese di Gilliat, che lo stava con quelle sorprese totalmente abacinando, Mastro Letierrì tornò ad abbracciarlo e poi chiese al popolo che affollava casa sua di allontanarsi, cortesemente ringraziandolo per l’entusiastica partecipazione, ma ora era giunto il momento di riacquistare un minimo d’intimità, di quiete, anche per consentire al giovane taciturno, palesemente schivo e restio, di aprirsi nel racconto delle sue mirabolanti incredibile imprese.

Racconto che il vecchio padron Letierrì faticò comunque a cavar fuori da Gilliat, quasi parola per parola, insistendo e pregando.
Seppe così, per sommi capi dell’impossibile avventura, di come quel giovane invincibile eroe, udita la promessa dichiarazione del premio pronunciata da Mastro Letierrì, era partito per conquistarlo. Di come si era organizzato, delle difficoltà enormi incontrate e come le aveva superate, della strenua lotta con le forze tremende della natura, della battaglia con il mostro subacqueo, del rtitrovamento del cadavere di Cublen e dell’inspiegabile presenza del tesoro su quel fondale, accanto al suo scheletro.
Dopo aver scavato per quasi due ore nel laconico, totalmente restio eloquio di Gilliat, avendogli nel frattempo offerto adeguato ristoro con un abbondante colazione, unicamente alla quale Gilliat non risultò alieno, Mastro Letierrì ebbe un quadro sufficientemente completo e logico degli eventi, per quanto essi si confermassero assai più incredibili, nel loro epico divenire, di ciò che lui avrebbe mai potuto immaginare.
Infine Gilliat ebbe l’ardire di chiedere di essere congedato: la sua stanchezza era ormai tale che non riusciva più a sostenersi, come accade spesso anche a causa delle grandi emozioni, che residuano il crollo dopo gli sforzi estremi.
Mastro Letierrì comprese e chiamò una carrozza con cui fece riaccompagnare il giovane a casa sua, non prima tuttavia di avergli estorto la promessa che sarebbe stato da lui a cena, con Deruscet…, quella sera stessa.

E quella sera arrivò ancora la carrozza a prenderlo: Mastro Letierrì aveva ormai ben compreso l’introverso e schivo carattere di Gilliat e temendo che non sarebbe venuto lo mandò a prelevare.
Il giovane giunse un po’ meno disastrato di come era apparso quel mattino, più riposato, evidentemente ripulito e rasato , nei suoi panni migliori, comunque rozzi e dozzinali, seppur pratici e robusti.
Non era affatto un brutto uomo, di statura medio alta, ben proporzionato ed atleticamente strutturato, lineamenti regolari, grandi occhi scuri incassati sotto la fronte alta, gli ondulati cappelli castani schiariti dal sole e dal mare, la pelle scura, cotta dal sole, con disegnate piccole rughe, quasi invisibili e tuttavia presenti.
Anche il suo portamento, per quanto chiaramente impacciato dalla timidezza, era sciolto, agile ed essenziale nei movimenti, così come appariva diretto e franco il suo rarefatto esprimersi, anche per la grande ritrosia di fondo.
Mastro Letierrì lo osservò attentamente apprezzandone il deciso miglioramento: quello era il “Comandante” che lui aveva sperato di trovare per il suo piroscafo affondato, quello era il “Comandante” che ora aveva trovato lui, consentendogli di far rivivere la “macchina a vapore”, insperatamente recuperata in una nuova Durand !
Ma quella sera a cena mancava Deruscet …
Mastro Letierri la scusò: cose da fanciulle: troppe emozioni in una sola volta…
Tutti quei nuovi sorprendenti fatti inattesi, d’immane portata, la rinascita della Durand ed il conseguente tornare a vivere del suo vecchio proprietario…
E poi…, soprattutto…quella sbalorditiva novità, che ora aveva un matrimonio in vista, un promesso sposo, lui Gilliat !
Il cui imporvviso rossore, a quelle parole, era mimetizzato solo in parte dalla forte abbronzatura.
Richiesto da Mastro Letierrì se fosse d’accordo, Gilliat sempre più confuso si schermì, farfugliando infine qualcosa tipo “come avrebbe potuto non esserlo”…!
Che ormai nulla di più al mondo poteva desiderare.
La cena ebbe comunque luogo, con la sola presenza delle altre donne di casa, un’anziana sorella e la matura governante del vedovo anfitrione. Oltre naturalmente alla cuoca ed una cameriera.

Come già quella mattina Mastro Letierrì dovette ancora impegnarsi per far sì che Gilliat si aprisse, benchè minimamente, ed insistendo con domande sempre più mirate riuscì a migliorare decisamente il quadro degli avvenimenti per cui qull’incredibile giovane aveva osato, voluto, saputo e potuto compiere l’impresa più straordinaria che mai il vecchio comandante, rotto a mille esperienze ed avventure, avrebbe mai pensato di poter assistere.
A tarda sera esauriti entrambi, l’inquisitore e l’inquisito, conclusero accordandosi per un nuovo incontro il giorno successivo.
Questa volta in presenza di Deruscet, promise Mastro Letierri !
Gilliat rifiutò di essere ancora scarrozzato a casa sua, avendo voglia di sgranchirsi in una passeggiata rilassante prima di coricarsi.

Ciò che Gilliat non poteva sapere, era che quel pomeriggio c’era stata una grave scenata tra padre e figlia, la quale totalmente disperata, aveva tra le lacrime confessato il suo nuovo, recentissimo amore per il giovane Ministro della Chiesa Protestante, testè giunto a Guernesì.
Mastro Letierrì, normalmente dolce e comprensivo con la figlia, non aveva retto a quella rivelazione: già non gli andavano i “preti”, di qualunque confessioni fossero, senza particolare avversione confessionale, ma solo in quanto tali…
La sua tendenza, le sue esperienze lo portavano a considerarli inutili, poco sinceri, spesso ipocritamente strumentali nei loro interventi…
Lui poi era il classico laico Volterriano, fondamentalmente illuminista, se pure non conoscesse che assai vagamente il significato di tali definizioni. Era un rude, franco uomo di mare, uso ad affrontare direttamente, guardandolo negli occhi, il Grande Spirito di tutte le cose.
E poi, mettersi con quel “damerino” da strapazzo, bellino si, ma unicamente manieroso, palesemente privo di di quella sostanza di fondo che sola appartiene ad un vero uomo ! Quella che aveva in abbondanza e da vender all’ingrosso, Gilliat !

A parte tutto ciò, che poco non era…c’era una precisa promessa, un solenne impegno da lui assunto ed immediatamente ribadito da Deruscet alla presenza di molti testimoni ! E Mastro Letierrì aveva una sola parola. Così come doveva essere per sua figlia. Che udite tali perentorie affermazioni non volle più sentire altro.
Si rinchiuse nella sua stanza a piangere disperatamente per tutto il giorno e non ci fù verso di farla più uscire, figurarsi partecipare alla cena con Gilliat !
Ma Mastro Letierrì non disperava di riuscire presto a farla rinsavire: in fondo la riteneva solo una bimba alle prese con il capriccio del momento, le sarebbe passata ed avrebbe presto imparato ad apprezzare un altro nuovo, più adatto giocattolo…
Lui sicuramente l’avrebbe molto “aiutata” in tal senso.
E così si era sbilanciato a prometterne a Gilliat la presenza per l’incontro del giorno successivo.

Uscito dalla casa dello suocero promesso…Gilliat fece alcuni grandi respiri liberatori, guardo il cielo stellato, indovinò il bel tempo del giorno dopo, v’intravvide l’incantevole volto di Deruscet che gli sorrideva e si avviò verso la sua casa solitaria, sulla via del promontorio che chiudeva il porto di Guernesì, verso il Capo degli annegati.
Ma non fece che pochi passi, perche subito udì un disperato singhiozzare. Fermatosi realizzò che proveniva giusto dalla casa da cui era appena uscito. Avvicinandosi verso quello straziante lamento lo localizzò venire dalla finestra socchiusa che sapeva appartenere alla camera di Deruscet !
Nel buio e nel silenzio della notte Gilliat si fermò ad ascoltare.
Udiva il gran pianto, ora interrotto da voci esagitate, che riconobbe essere quella di Mastro Letierrì e della stessa Deruscet.
Il padre stava dicendo, la voce alterata da forte emotività: “Tu sposerai Gilliat ! Certamente non quel pretucolo da bomboniere… Ricorda la tua solenne promessa, quando neppure un mese fa affermasti davanti a tutti che avresti senz’altro sposato chi fosse mai riuscito a recuperare il motore della Durand…Ora un vero uomo, un incredibile eroe, audace, temerario vincitore dell’impossibile c’è riuscito contro ogni previsione, contro ogni probabilità, e tu avrai il grande onore di diventare sua moglie !”
Al che la voce strazziata e singhiozzante della fanciulla replicò “ Si è vero, ho detto che l’avrei fatto, ma era come giurare sull’impossibile. Alla stessa maniera avrei potuto giurare che avrei sposato un asino qualora fosse stato capace di volare…
Allora non avevo ancora conosciuto il nuovo Pastore, non avevo sentito il mio cuore battere forte per lui…E’ lui, solamente lui l’uomo che io voglio sposare, lui o nessuno !”.
“Ed allora sarà nessuno ! Come madamigella desidera.” aveva urlato Mastro Letierrì, chiudendo il dialogo e sbattendo la porta.

Gilliat era rimasto pietrificato udendo involontariamente quel concitato, durissimo e straziante discorso che totalmente lo riguardava .
Rimase immobile dov’era, quasi senza respirare per un lunghissimo, infinito lasso di tempo, pietrificato, timoroso di palesare la sua presenza , che ora sapeva essere sgradita a Deruscet, anche solo con l’azione…del pensiero.
Poi, lentamente, con sforzo infinito, riprese a camminare, ma come un automa, verso casa.

Gilliat, il “bu de la rue”, il prode, mitico eroe, lo stregone capace di incantesimi ed altre diavolerie, il solitario e taciturno marinaio pescatore…
Ma Gilliat era soprattutto un folle, tenerissimo ed incredibile romantico, vergine di qualsiasi affare di cuore !
Un pazzo sentimentale, privo di alcun senso delle proporzioni, così come della minima esperienza amorosa…
Trasferito nel campo dell’amore era più immaturo di un neonato !
Ogni sua grande capacità, tutto il suo accorto e pratico raziocinio non avevano in quell’ambito il minimo valore.
Gilliat era perdutamente innamorato, silenziosamente, segretamente, ma assolutamente e totalmente di lei, Deruscet, da quando quell’inverno la ragazza aveva scritto, così per scherzo, il suo nome nella neve. Gilliat non aveva pensato ad altro, esattamente come un pazzo maniaco, ossessionato da un’unica visione, da un’unica meta !
Poi a quella ossessione aveva provvisoriamente sostituito l’altra, il recupero della macchina naufragata tra gli scogli delle Druve, ma solo perché quello era divenuto l’insperato tramite per realizzare davvero il sogno di avere Deruscet !
Senza la quale oramai non sarebbe più riuscito a vivere !
La sua incredibile vittoria nella sfida all’impossibile era totalmente a lei dedicata e da lei motivata. Gilliat vi aveva già arrischiato almeno cento volte la vita perché la sua vita aveva ormai valore unicamente in funzione di lei.
Vita che ora, sentendosi totalmente, crudelmente rifiutato, non considerava più, assolutamente degna di essere ancora vissuta.

Gilliat procedeva trasognato, freddo ed insensibile come un manichino animato. Non aveva più pensieri, ne sentimenti, né sensazioni, se non un enorme, immenso dolore. In lui ora era rimasto solo quello : il dolore.
Il rifuto dell’amatissima, ma incosapevole Deruscet, l’aveva ucciso.
Superò la sua casa senza vederla, senza smettere di camminare e salì la china verso l’alto promontorio.

Quando fù lassù, in cima al vertiginoso strapiombo sul mare, continuò a non avere pensieri, ne sensazioni, completamente in preda dell’enorme, indicibile dolore.
Automaticamente, come per prepararsi ad un’apnea profonda...
fece alcuni lunghi respiri ritmati, poi…
spiccò il volo, come un gabbiano…

Senza un grido, senza un lamento, piombò in mare novanta metri più in basso, in mezzo agli scogli.

Quella fù la fine di Gilliat…il mostro, il bruto che aveva osato amare la bella, innarivabile principessa della favola senza lieto fine.

foto di piovra gigante