martedì 25 ottobre 2011

La Principessa rapita. 3^ Parte




La Principessa rapita. 3^ Parte

Victor era dunque in fuga sull'Isola del Te, approdatovi dopo una lunga nuotata, rocambolescamente evaso dalla stiva del veliero ammiraglio di Karimbad, dove era tenuto prigioniero dopo la sua cattura, seguita alla liberazione della Principessa Monia, ricondotta in patria dal Mago Architagora a bordo della sua prodigiosa Macchina Volante.

La flotta di Karim, appena partita per le Indie, già stava rientrando nella baia per catturarlo di nuovo ed alla sua caccia avrebbe certamente coinvolto anche parte della popolazione indigena.

Victor aveva calcolato di avere forse due ore di vantaggio sugli inseguitori.
Non conosceva il territorio su cui si stava rapidamente muovendo.
L'Isola non era molto grande, ma ricca di vegetazione, di montagne molto scoscese, di ripidi corsi d'acqua, laghi, cascate.
Non aveva idea di che fauna avrebbe potuto incontrare in quelle foreste, nè di eventuali pericoli ed ostacoli.
L'unica strategia che aveva in mente era una fuga nei meandri della fitta giungla, verso le vette più alte, da cui avrebbe potuto più facilmente controllare l'eventuale arrivo del suo amico Mago, che sicuramente sarebbe ritornato per tentare di soccorerlo a bordo della Macchina che volava.
Non era armato, la corta scimitarra che aveva sottratto al suo carceriere fuggendo l'aveva dovuta abbandonare prima di tuffarsi in mare, perchè lo avrebbe ostacolato ed appesantito nella lunga nuotata verso riva.
Spesso era costretto ad aggirare i fitti intrichi di vegetazione che lo ostacolavano nella fuga. Sperava che ciò avrebbe forse ridotto le tracce del suo passaggio, che cercò di rendere ancora meno evidenti, muovendosi con la maggior circospezione possibile. Ma questo procedere non favoriva di certo la sua velocità di fuga.
Si rendeva anche conto che una volta che avesse raggiunto una vetta, su quella avrebbe probabilmente finito con l'essere accerchiato dagli inseguitori.

Ormai la visibilità si era ridotta praticamente a zero: con la notte era ormai sopraggiunta nella giungla sabbe stato buio totale.
Si risolse quindi all'attesa ed al vigile riposo, arrampicandosi su di un alto e frondoso albero, poco oltre l'inizio della foresta, su cui riuscì in qualche modo ad inventarsi uno scomodo giaciglio.

Il suo dormiveglia durò solo poche ore, presto arrivò improvvisa l'alba tropicale ed allora discese dal suo nascondiglio ripartendo con determinata urgenza.
Dopo un'ora abbondante di faticosa fuga attraverso la giungla tropicale
Victor giunse infine sull'orlo di un precipizio, che improvvisamente si era aperto davanti a lui e nel quale la foresta sembrava quasi precipitare, unicamente fermata dalle rocce del dirupo.
In fondo al quale, circa trenta metri più in basso, vide un piccolo lago, in cui si specchiava l'abbondante vegetazione.
In quella situazione si sentì bloccato: la giungla ed i probabili inseguitori alle spalle, il precipizio davanti !
Aggrappandosi ai rami più sporgenti si protese sul baratro per controllare se non vi fosse una qualche via di discesa, ma vide solo un liscio muro di roccia lavica, nera e bagnata dalla rugiada del mattino, incombente sul lago.

Subito dopo notò molte lunghe liane che pendevano dall'intrico della foresta verso il baratro. Avendo di che reciderle avrebbe potuto formare una lunga fune, utile per la discesa...Cercò se trovasse una pietra affilata, una scheggia, qualcosa di tagliente, ma nulla...
In quella udì un lontano brusio, che infine riconobbe come il latrare di cani...
Su quell'Isola avevano dunque dei segugi ? Oppure erano parte dell'equipaggio dei vascelli indiani ?
Comunque fosse quegli animali erano probabilmente ormai sulle sue tracce...odorose, stimò a non più di mezz'ora da lui ! Doveva al più presto attraversare quel lago, facendovi perdere le sue tracce olfattive. Ma come raggiungerlo ?
Un tuffo da quell’altezza e senza conoscere la profondità del fondale sarebbe stato ad altissimo rischio…
Victor si mosse lungo il costone del dirupo, nell’intrico della giungla che tuttavia vi strabordava, alla ricerca di una via di discesa, di un punto meno esasperato da cui saltare.
Spostandosi notò che il lago era in realtà formato da un corso da’acqua che si allargava in quel tratto più ampio della stretta e scoscesa vallata.
Lui ora muoveva verso valle, nella direzione in cui scorreva il fiume.
Ciò poteva essere in contrasto con la sua intenzione di raggiungere una vetta da cui poter intercettare la Macchina Volante di Arcitagora.
Ebbe un attimo di perplessità, ma subito considerò che ora doveva innanzitutto seminare gli inseguitori. Opportunità che gli fù ribadita udendo ancora il latrato dei cani, ora più chiaro e quindi più vicino. Riprese quindi a muoversi in quella direzione.

Dopo altri duecento metri, faticosamente percorsi sull’orlo del precipizio infestato dall’intrico della giungla, notò penzolare nel baratro una liana più lunga delle altre, che scendeva sin quasi a metà dell’erta ripa che sovrastava l’acqua, sino quasi a lambire una sorta di minuscola cengia, appena intagliata nella liscia parete verticale.
Da quel punto sino alla superfice del lago stimò ci fossero circa una quindicina di metri, al massimo venti: un tuffo che di
ventava alla sua estrema portata.
L’acqua sottostante era di un azzurro cupo, tipico dei fondali più profondi.
Ancora udì, più vicino, il latrato dei cani…e questo lo fece decidere.
Raggiunse dunque poco più avanti il punto in cui la liana penzolava, lontana almeno tre o quattro metri dall’orlo dell’alta ripa. Occorreva saltare ed afferarla al volo, non c’erano alternative, tranne risalire sull’albero, sino al punto da cui si staccava quella lunga radice aerea, penzolante nel vuoto. Ma avrebbe perso tempo prezioso.
Victor cercò il punto più vicino alla liana, controllò attentamente la solidità della ripa da cui doveva spiccare il salto, respirò profondamente tre volte, cercando la massima concentrazione, già articolando le dita delle mani, alla cui ferma presa era ora affidata la sua sopravvivenza, attivando la massima acutezza dei suoi sensi per il balzo che stava per compiere…e quindi saltò !
Raggiungendo ed afferrando la fune, neppure un paio di metri più in basso rispetto al punto da cui aveva spiccato il breve volo.
Sotto il carico improvviso del suo peso la liana cedette di altri due metri, ma resse infine il peso. Victor veloce discese e fù presto al termine della liana, appeso al suo capo inferiore, penzolante sul lago sottostante.
A quel punto constatò che si trovava a circa quattro metri da quella minima cengia scorta dall’alto, che nelle sue intenzioni avrebbe potuto costituire il trampolino per il suo tuffo spericolato. Di nuovo si trovò a considerare quanto tempo e fatica avrebbe dovuto dedicare alle acrobazie necessarie per raggiungere quel punto di equilibrio assai precario.
Decise allora che sarebbe saltato direttamentedalla fune, usandola come pendolo per allontanarsi dalla parete di roccia e raggiungere l’acqua il più lontano possibile dalla sottostante riva, là dove presumibilmente era più profonda.


(a lato "angel's fall", la cascata più alta del mondo, oltre 900 mt., in Venezuela)

Accentuando il dondolio della liana raggiunse la parete rocciosa, contro la quale si appoggiò con i piedi dandosi poi una grande spinta, che lo portò ad allontanarsi almeno sei metri verso l’esterno, la dove approfittando della residua spinta si lasciò infine andare, curando poi subito di assumere una posizione idrodinamica, la più vertiicale possibile, così da ridurre al minimo gli effetti d’urto del suo corpo con l’acqua.
Nella quale penetrò velocissimo, sprofondando per almeno cinque o sei metri, nonostante subito si fosse poi raccolto ed allargato per frenare l’immersione, giungendo però a solo metà del fondale, che in quel punto toccava circa dieci, dodici metri.
Velocemente riemerse, constatando come l’acqua fosse decisamente più fersca che non quella del mare in cui aveva lungamente nuotato la sera prima.
Evidentemente quel fiume scendeva da rilievi di considerevole altezza.
Subito iniziò a nuotare di buona lena verso la riva opposta del laghetto, distante circa tre o quattrocento metri, ma notando solo ora che il lago, in superfice apparentemente immobile, in realtà scorreva veloce verso valle.
Quando dopo pochi minuti era ormai vicino all’altra sponda, Victor udì le grida dei suoi seguitori che avevano raggiunto, guidati dai cani, l’orlo della ripa verticale da cui lui si era poc’anzi tuffato.
Grida concitate ed indispettite, cui seguì un improbabile saettare di dardi verso di lui, frecce che finirono inevitabilmente in acqua senza poterlo raggiungere a quella ormai notevole distanza.
Distanza in realtà di sole poche centinaia di metri, ma troppi perché potessero colpirlo e fortunatamente molti da superare per gli inseguitori, ora alle prese con importanti ostacoli naturali: l’alta e scoscesa ripa su cui la giungla incombeva, e l’acqua sottostante da guadare.
Un vantaggio che poteva quantificarsi in un tempo di molte ore.

Arrivando a ridosso dell’opposta riva Victor constatò che non c’era possibilità di approdarvi: le pareti lisce e verticali della roccia impedivano anche da quel lato qualsiasi possibilità di approdo.
Provò ad avvicinarsi, a trovare un appiglio, ma non trovò nulla, e sotto di lui l’abisso sprofondava nell'acqua per parecchi metri.
Nel frattempo la corrente, già avvertita nuotando nella traversata, era divenuta più rapida e continuava ad aumentare di velocità, avvicinandosi alla fine del lago, l’estuario a valle del fiume che lo alimentava.
Fù allora che Victor si rese conte di udire un progressivo, rapidamente crescente rumore, che presto avvertì come un sordo boato, in aumento preoccupante via via che si avvicinava alla fine del lago: una cascata ! Non poteva che essere un elevato, fragoroso salto d’acqua che precipitava da grande altezza.
Il panico lo colse: si trovava in balia del sempre più rapido scorrere della corrente senza la possibilità di fermarsi, trovando un appiglio lungo quella roccia ripida e levigata che formava la parete verticale della riva raggiunta.
Sollevandosi con un colpo di reni fuori dall’acqua sin quasi alla vita intravvide, a neppure un centinaio di metri, la spumosa e fragorosa linea del salto, il traguardo oltre il quale sarebbe volato da chi sa quale altezza per sfracellarsi su probabili balze e rocce sottostanti !
Pochi secondi lo separavano ormai da quell’ineluttabile destino.
Victor spinse ancora contro la parete, strisciandovi le mani sino a spellarsele.

Inutile, non trovava appigli e la corrente lo trascinava via veloce.
Era ormai a pochi metri dal salto quando vide penzolare sull’acqua un lungo ramo,
sporgente dalla riva finalmente in declino. Il ramo degradava a circa un metro dall’acqua ed a sei braccia da riva: Victor non aveva alternative, a quello doveva tentare di aggrapparsi, estremo tentativo di salvezza e così fece.
Forsennatamente si allontanò dall’innarivabile muro di pietra che gli scorreva accanto e raggiunse contemporaneamente il baratro ed il ramo, che afferrò in un guizzo disperato, finendo immediatamente dopo, sulla spinta ormai dirompente dell’acqua in cascata, a dondolare su di un baratro che stimò profondo almeno un centinaio di metri !
Cercando di non scivolare sulla presa, con le mani bagnate ed insanguinate per le ferite provocate dall’attrito sulla roccia, si sollevò sul ramo a forza di braccia, con sforzo sovrumano, finchè fù fuori dall’acqua e riuscì a ghermirlo saldamente anche con le gambe intrecciate.

Mentre così tentava di riprendere fiato, dovette forzarsi oltremodo per per non cedere la panico per la terribile visione che inevitabilmente gli dava l’orrido sottostante, su cui si trovava a penzolare, ancora in una situazione di totale rischio per la vita.
Victor concentrò la sua attenzione sul ramo della sua possibile salvezza: scendeva obliquo dalla ripa dal tronco di una sorta di acacia contorta e tuttavia maestosa, vero miracolo della natura in quel contesto di scoscesa, grande precarietà del suolo in cui aveva disperatamente sprofondato le sue radici.
Iniziò a muoversi, arrampicandosi con lenta, ferma cautela, afferrando saldamente la scivolosa superfice del ramo per risalirlo, sino a raggiungerne il tronco e quindi la riva.
Aggrappato con braccia e gambe, lentamente, con estrema prudenza, riuscì infine a guadagnare quella base, abbracciando il tronco della pianta che lo aveva salvato, poco sopra licheni ed arbusti che formavano compattandolo quel pendio.

Mentre così riprendeva fiato e smaltiva parte della tanta adrenalina prodotta dalle sue surrenali in quella terribile occasione, indulse ad osservare come, la dove il lago terminava nell’estuario del fiume, defluendo direttamente nella cascata, terminavano anche le strette pareti rocciose della montagna, scavata a mò di canion dal corso dacqua, nel divenire infinito del tempo.
Così la montagna tutta, improvvisamente precipitava, insieme alla cascata o quasi, verso valle, in un rapido pendio scosceso, ma ancora in gran parte formato dall’intrico verde della giungla, in soluzione di continuità.
Così restò Victor, lungamente fermo e saldamente avvinto, calmando l’affannoso respiro e rallentando il tumultuoso battito del cuore, mentre sotto di lui continuava il grande, minaccioso fragore dell’abissale cascata, che si era poc’anzi confuso con quello interiore dei suoi sensi.


Fine della 3^ Parte

nonnorso










































































































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