sabato 5 novembre 2011

LA PRINCIPESSA RAPITA 4^ Parte


La Principessa rapita 4^ Parte

Victor rimase svariati minuti appeso agli arbusti, sul drammatico baratro sopra la cascata, a strapiombo sul salto abissale in cui l'acqua precipitava fragorosamente.
Vi restò ansimando, assordato dall'immane boato, a smaltire tachicardia ed affanno, per il grande sforzo e l'eccezionale emozione di quell'utlima avventura, in cui aveva ancora sfiorato la morte.
Ma non era finita, gli inseguitori probabilmente incalzavano: mentre nuotava attraversando il lago dopo il tuffo rocambolesco, Victor aveva notato in lontananza, all'inizio del piccolo bacino, là dove le pareti a strapiombo dei fianchi rocciosi del canion si stringevano sino a poche decine di metri, aveva intravisto un ponte di liane sospese...
Sicuramente chi gli dava la caccia conosceva quel passaggio sopra il canion e e si era diretto a quella volta.

Victor riconsiderò allora l’intenzione di risalire verso le alture, all'interno dell'Isola,dove forse sarebbe stato più facile ricongiungersi alla macchina volante del suo amico Mago: andando da quella parte sarebbe probabilmente finito in bocca agli inseguitori.
Ma anche ridiscendere comportava il rischio di rimanere circondato da altri ancora, lanciati da ogni dove alla sua cattura. Senza contare che dal punto in cui si trovava il pendio era tale che per ridiscenderlo sarebbe stato assai più utile un paracadute… che non una lunga fune da rocciatore. E lui non aveva nè l’uno né l’altra.
Recuperato che ebbe fiato a sufficienza per ripartire, Victor si risolse a continuare la risalita: avrebbe inventata qualche soluzione per sfuggire ancora agli immediati inseguitori, magari depistandoli.

L'erta su cui saliva era quasi verticale, resa ancor più ardua da un fitto intrico di vegetazione, che per quanto fastidiosa da penetrare gli tornava utile per potersi arrampicare.
Procedeva necessariamente a rilento, ma dopo circa un ora di fatica raggiunse quello che poteva essere il bordo superiore della scoscesa scarpata, oltre il quale, improvvisamente il pendio diveniva meno drammaticamente inclinato, quasi dolce, infittendosi tuttavia di nuovo la vegetazione.
Ormai udiva lontano e soffuso il rombo della cascata, così che avanzando in quella sorta di altipiano sentì dei grugniti, davanti a lui, stimò ad un centinaio di metri. Si armò allora di un grosso bastone, agguzandone la punta con una pietra tagliente e branditolo a mò di lancia riprese ad avanzare. Giunse in una breve radura, dove la giungla diradava, ed in quella scorse un gruppo di facoceri che stava nutrendosi di radici affioranti dal suolo, che loro stessi avevano scavato.

Gli animali, probabile ambita preda dei cacciatori isolani, avvertita la sua presenza emisero degli striduli ruggiti, ma infine si dettero alla fuga, temendo in lui un possibile predatore.
Victor continuò ad avanzare, finche si trovò a ridosso di liquami assai puzzolenti, deiezioni scaricate in loco da quelle bestie.
Istintivamente deviò storcendo il naso, ma ebbe poi subito invece una ispirazione: rotolarsi in quegli escrementi dal terribile sentore avrebbe mimetizzato completamente le proprie tracce all'olfatto dei segugi che lo stavano inseguendo !
Vincendo l'enorme riluttanza che ovviamente gli ispirava quell'azione, forzata da imprescindibili motivi di sopravivenza, Victor si spalmò dunque, con grande ribrezzo, da capo a piedi con la merda dei facoceri.
Non faceva spesso così, per atavico istinto, anche il suo cane Nuppo ?
Quante volte aveva dovuto rimproverarlo e poi strigliarlo, dopo che si era felicemente rotolato nei liquami dei cinghiali, in mezzo ai boschi ?
Era il tipico comportamento di ogni predatore per annullare il proprio odore e rendersi perciò olfattivamente innavertibile alla sua preda.
Ma ora era lui, Victor, la preda che doveva mimetizzarsi dai cacciatori, i segugi lanciati sulle sue tracce, che quella puzza avrebbero sicuramente annullate, sconvolgendo le delicate narici dei cani !
Così...rivestito di oleazzante, nauseabondo sentore, Victor riprese ad avanzare su per quel pendio, ora più lieve, dove una macchia tipo Savana stava progressivamente sostituendo la Giungla, probabile conseguenza dell'altitudine di quella zona, ormai oltre i duemila metri.

Ben presto a Victor sembrò di percepire un vago latrare dei cani.
Un rumore lontano, inizialmente confuso con il sordo rombo della cascata, poi via via crescente, sino a diventare nitidamente distinguibile: erano i suoi inseguitori che guidavano i cani alla ricerca delle sue tracce perdute oltre il fiume, probabilmente superato scavalcandolo grazie al ponte di liane.
Victor per evitarli non poteva ora che confidare nel mimetismo olfattivo di cui si era dotato…, tranne tentare la fuga verso valle, opzione che già aveva scartata.
In ogni caso doveva evitare di incontrarli, di farsi vedere !
Poteva perciò scartare di lato, cercando di aggirare il fronte degli inseguitori in arrivo, ma non aveva idea di quanto fosse largo e come disposto…
L’unica altra alternativa era di arrampicarsi su di un albero, nascondendosi tra le sue fronde, o trovare una buca profonda, una grotta, una tana ben celata nell’intrico del sottobosco.
Ma non aveva ormai molto tempo per cercare, più facile trovare un albero adatto per rifugiarvisi: ne scelse un altissimo, assai fitto di rami e di vegetazione, una sorta di grande acacia che svettava nell’alta savana dell’Isola.

I suoi primi rami verso il suolo erano ad un’altezza di almeno 4 o 5 metri, impossibili da raggiungere con un balzo, né il tronco permetteva, così ampio e privo di altri appigli, di arrampicarvisi. Ciò che poteva essere un vantaggio, perché difficilmente i suoi inseguitori lo avrebbero cercato su quello, qualora i cani l’avessero preso di mira. Ma era anche problematico scalarne le base, non essendovi nelle immediate vicinanze altre piante che gli potessero fare da ponte per la risalita.
Victor possedeva tuttavia risorse tali da poter velocemente risolvere quel problema.
Una liana lanciata a mo di fune avrebbe potuto andargli bene, ma quelle radici aeree erano sparite nell’alta zona boschiva. Cercò allora una pertica, un palo che gli facesse da supporto. Trovò poco lungi un lungo, dritto ramo pendente da un altro albero, che arrivava a circa tre metri dal suolo. Con un agile balzo Victor lo raggiunse, vi si appese ed iniziò a dondolarvisi gravandone con il suo peso l’estremità, sinchè l’udì scricchiolare, cedere ed infine schiantare al suolo.
Ne verifico l’estremità rotta, abbastanza compatta per funzionare da puntale.
Impugnando quella pertica improvvisata tornò verso l’alta acacia, mentre il latrare dei cani era sempre più vicino. Calcolò allora un tratto d’avvicinamento all’albero sufficientemente lungo e sgombro di vegetazione e prese la rincorsa: in crescendo di velocità arrivò con il puntale di quell’asta contro la base dell’albero e saltò, brandendola all’estremità opposta, così che insieme a lei si sollevò, raggiungendo i primi rami dell’alta pianta.
Ne afferrò uno con un braccio e con le gambe, ma senza mollare la presa della pertica, che intendeva recuperare issandola sull’albero affinchè non rimanesse al suolo la possibile traccia del suo funambulismo.
Fù un esercizio arduo e faticoso, ma infine l’agile e forte Victor riuscì a posizionarsi seduto sul ramo, con l’asta ancora brandita in una mano.
La tirò su e la nascose tra le fronde, fissandovela nascosta per bene ed iniziò poi a risalire l’altissima pianta, mentre l’abbaiare dei cani era ormai, calcolò, a poche centinaia di metri. Salì veloce, il più in alto possibile, giungendo ad una ventina di metri dal suolo, finchè trovò rami abbastanza solidi da poter reggere in sicurezza il suo peso. E là in cima ristette, immobile nel silenzio totale, unicamente avvertendo il rumore degli inseguitori e la propria, confortante puzza di letame suino.
Terribile all’olfatto, ma sicuramente tale da sovrastare il suo proprio odore corporeo, quello che i cani ormai sopragiunti stavano cercando dopo averlo perso di là dal fiume.
Arrivarono sotto di lui, intensificando preoccupantemente i latrati per l’improvvisa nuova zaffata odorosa che le mollecole di escrementi di facocero disperdevano lì intorno ! Girarono intorno all’albero, allargando la ricerca della nuova traccia, si che gli inseguitori provvidero a controllare attentamente la zona, scrutando bene anche verso l’alto.
Poi i cani ripresero a muovere, scendendo verso valle, inseguendo ora le inequivocabili tracce dei suinidi dai cui escrementi derivava la nuova pista a ritroso.

Victor attese là in cima lungamente, prima di muoversi.
Ne approfittò per riposarsi e per scrutare l’ambiente circostante da quella posizione vantaggiosa.
Sopra di lui, ad alcuni chilometri a monte s’ergeva un’alta vetta, conica ma priva di vertice al suo apice, probabile vulcano inattivo, le cui ripide falde uscivano brulle e rocciose dalla circostante savana.
Quella vetta superava probabilmente i 3.000 metri e poteva costituire un buon punto d’incontro con il Mago Architagora, se e quando fosse giunto sull’Isola alla sua ricerca a bordo della prodigiosa macchina volante.
Da là in cima, magari protetto da sguardi indiscreti all’interno del cratere, Victor avrebbe potuto tentare segnali di riconoscimento facilmente visibili dall’alto e significativi della sua presenza in loco.
Quando non fù più in grado di udire l’ormai lontano abbaiare dei segugi Victor discese dall’albero e riprese a salire verso monte, in direzione della vetta vulcanica.

Gli occorsero almeno tre ore per raggiungerla, attraverso il saltuario intrico di arbusti spinosi, poi arrampicandosi sull’erta, tagliente roccia lavica.
Fece alcune soste per cercare tra le rocce della pietra focaia con cui accendere un fuoco di segnalazione, per alimentare il quale si caricò di sterpi e rami secchi. Trovo anche un piccolo ruscello alla cui fonte si dissetò e lavò abbondantemente, ben sapendo che giunto in vetta difficilmente avrebbe trovato da bere e di che ripulirsi del fetido odore escrementizio.
La fame di quasi due giorni dovette invece tenersela tutta: a parte alcune improbabili bacche non c’era nulla di commestibile in quella vegetazione.

Quando fù in cima alla montagna, sull’orlo del cratere che precipitava drammaticamente anche all’interno, la sua fatica fù ampiamente premiata dalla visione di un panorama incredibile: da lassù poteva scorgere tutt’intorno l’Isola ed il mare circostante, a perdita d’occhio !
L’Isola verdissima, carica di giungla, si stendeva per un raggio di molte miglia intorno a lui, poi iniziava l’intenso azzurro del mare, che lentamente sfumava lontano, sino alla vaga linea di confine in cui pareva congiungersi con l’azzurro più tenue del cielo.
Il sole era ormai calante nel pomeriggio ed era improbabile che Victor potesse ancora scorgere l’arrivo del magico uccello meccanico di Architagora, la sua macchina volante.
Ciònondimeno, chi ha tempo non ne aspetti altro ed organizzò subito un ampio braciere di pietre sull’orlo del cratere, all’interno del quale radunò la ramaglia che si era portata dal basso, così che fosse pronta ad ardere fumosamente per segnalare al Mago la sua presenza là in cima.
Probabilmente quel fumo sarebbe stato notato anche dagli indigeni e dalle guardie di Karimbad, cioè da tutti i suoi inseguitori, ma Victor calcolò che avrebbero potuto interpretarlo come un’estemporanea fumata del vulcano…
In ogni caso prima che potessero raggiungerlo era assai più probabile che arrivasse sino a lui Architagora con il suo velivolo, a prelevarlo.
Provò infine il funzionamento delle pietre focaie che aveva raccolte, verificando che nel giro di pochi minuti gli permettevano di ottenere la fiamma necessaria ad avviare il fuoco di segnalazione.

A quel punto mancava non molto al tramonto, il sole stava scendendo sull’orizzonte e dopo essersi preparato una sorta di giaciglio in una necchia rocciosa, foderata con gli arbusti meno ruvidi della sua riserva combustibile, Victor si accinse ad ispezionare i d’intorni, nella vaghissima speranza di reperire alcunchè di commestibile.
Il cratere aveva un diametro di circa 400 metri e sprofondava all’interno con pareti scure e scoscese, sino a perdersi in un totale buio infernale.
Il suo bordo, mediamente largo pochi metri era aspro ed accidentato ed in alcuni tratti si stringeva sino ad una spanna di larghezza, per transitare sulla quale occorrevano doti di equilibrio adeguate e totale assenza di vertigini.
Nulla tuttavia, se paragonato alla drammatica visione della cascata precipitante sotto di lui, quando in estremis era riuscito ad afferrare il ramo della salvezza, cui era rimasto appeso, penzolante sul baratro rombante la mattina di quello stesso giorno !

Victor avanzò sulla circonferenza del crinale per circa un quarto di miglio: aveva notato a quella distanza un assiduo volo di uccelli plananti tra le rocce e sperava di trovarvi un nido, le cui uova sarebbero state un ottimo ricostituente per la sua fame arretrata…
Avvicinandosi realizzò che si trattava di falchi pellegrini, tipici delle scogliere marine ed usi a nutrirsi di altri uccelli pescatori o direttamente di pesci, colti al volo sfiorando con gli artigli la superfice del mare.
Come fossero finiti a nidificare là in cima, ad oltre tremila metri di altezza, era assai strano e singolare. Forse si trattava di una specie mutante, adattata a nuove abitudini per necessità contingenti di valenza locale.
In ogni caso non sarebbe stato facile convincerli a cedergli l’eventuale nidiata.
Victor arrivò con lenta cautela nel punto del cratere in cui aveva notato il via vai dei falchi, che nel frattempo si erano allontanati cercando di distrarlo altrove.
Guardando attentamente, nella penombra del cratere, pochi metri sotto di lui notò un anfratto dove un nido poteva in realtà celarsi.
La ripa interna era ripida e scivolosa per la cenere che la rivestiva.
Ma anche la fame era tanta, superando il timore per quel rischio di scendere sino al nido a raccoglierne il contenuto.
Victor osservò attentamente quei pochi metri di discesa da percorrere, all’interno del precipizio: se fose scivolato non sarebbe riuscito ad arrestarsi se non in fondo al cratere, cioè chissà dove, dopo un salto di forse migliaia di metri ! O forse perfino all’inferno !
Ciònondimeno si accinse anche a quell’avventura.
Tenendosi ben ancorato con le mani alla sommità del ciglio, discese con il corpo all’interno della bocca del vulcano, scavando con la punta dei piedi nella cenere sino a trovare un qualche affidabile appiglio sui cui appoggiare.
Ugualmente fece poi con le mani, avendo sempre cura di avere contemporaneamente in presa tre arti su quattro. Così, con lentezza assai prudente discese i pochi metri utili a raggiungere il nido.
Ma proprio allora avvertì alle sue spalle un vorticoso fremito d’ali, e l’urlo stridulo, agghiacciante del falco che gli piombava addosso per difendere il suo nido !

Sentì anche il fitto dolore alla schiena causatogli dalla violenta aggressione del rapace, le cui zampe ungulate gli aveva piantato sotto la scapola destra.
Victor dovette fare uno sforzo di autocontrollo sovrumano per non abbandonare la presa di mani e piedi sulla ripida parete del cratere.
E subito dopo riuscire a piazzarsi in sicurezza nel breve anfratto in cui ubicava il nido.
Al ritorno del falco si era già voltato, afferrando una pietra repentinamente colta sulla cengia, così da poter adeguatamente fronteggiare quella furia volante.
Al terzo successivo attacco Victor ebbe la freddezza di prendere bene la mira e l’energia di scagliare con rapida violenza il grosso sasso, colpendo alla testa il rapace, che finì per rotolare tramortito giù per il pendio, sino a perdersi nel buio del concavo cono vulcanico.
Dolorante per la ferita alla schiena riprese fiato, constatando la presenza di sette uova all’interno del nido.
Il dolore che avvertiva era vivo, bruciante e probabilmente la sua carne scalfita sanguinava, ma nulla poteva fare per verificarlo, né curarlo in quella parte del suo corpo. Cercò quindi di distrarsi dal problema dedicandosi alle uova.
Ne soppesò una, appena più grande di quelle di gallina, cercando di valutarne la freschezza, ne ruppe il guscio e l’annusò, senza percepire alcun effluvio negativo.
Poi la bevve, con cautela, verificandone l’accettabile sapore e la gratificazione di alimentarsi sostanziosamente dopo il forzato digiuno, durante il quale avava per altro dovuto bruciare tantissime energie.
Ne bevve un’altra e poi un’altra ancora, cercando di farlo con calma, nel rispetto del suo stomaco da qualche tempo inattivo, come gli aveva spesso raccomandato di fare il Mago suo Maestro, che da tempo lo aveva introdotto alla pratica di periodici digiuni, per depurare e rinforzare il corpo e la mente, seppure mai in coincidenza con attività fisica impegnativa.
Avvolse infine le quattro uova rimaste in una sorta di marsupio formato annodando il lembi della camicia e si apprestò a risalire sino all’orlo del vulcano.
Lo fece curando attentamente di riposizionare saldamente mani e piedi negli stessi incavi che aveva realizzato scendendo.
Arrivò sul bordo del cratere per assistere al meraviglioso spettacolo del sole che tramontava, una rossa, enorme palla di fuoco che si tuffava nel mare di cobalto all’orizzonte, la cui lontana linea disegnava assai bene la curvatura terrestre.


Decise poi che anche per lui era giunta l’ora del riposo e si adagiò nel riparato incavo di roccia, appena sotto il margine del cratere, che aveva già attrezzato con
gli arbusti meno ruvidi prelevati dalla fascina che sin lassù aveva recato per alimentare il previsto fuoco di segnalazione.
Ma prima di indulgere al sonno si bevve altre due delle uova rimaste, lasciando le rimanenti per la colazione del successivo mattino.
Così che gli fù più facile e gradevole appisolarsi con la pancia piena di quell’alimento ricco di sostanze assai nutrienti.
E presto fù tra le braccia di Morfeo…

Fine della 4^ Parte

nonnorso


























































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