Buon Natale a tutti con il divertente video estratto da "Bianco Natale di Topolino" di w.disney (v. qui sotto). Un abbraccio da nonnorso
(Bianco Natale di Topolino)
sabato 24 dicembre 2011
martedì 29 novembre 2011
LA PRINCIPESSA RAPITA. 5^ ed ultima Parte.
La Principessa Rapita . 5^ ed ultima Parte
A 3.000 metri di quota, in cima al vulcano sul tetto dell'Isola, l'alba arrivò presto, spingendo una brezza di mare fresca e frizzante, nonostante la latitudine tropicale. Nella nicchia all'interno del cratere Victor fù svegliato dallo splendere del nuovo giorno.
Si alzò con circospezione sullo strapiombo di nera roccia e si spostò in posizione di sicurezza, una zona appena più ampia dell'orlo, sulla bocca del vulcano.
Si stiracchiò le membra ancora ammaccate dalle tante fatiche del giorno prima e bevve golosamente le due uova di rapace avanzate dalla sera precedente.
L'oriente era un esplosione di luce ed il mare disegnava una lunga curva tutt'intorno. Strizzando gli occhi riuscì a scorgere lontano, sotto di lui, ad almeno sei miglia di distanza, la baia, dove si indovinavano appena dei puntolini scuri: i velieri della flottiglia del principe Karimbad, i cui equipaggi erano ancora sgunzagliati in giro per l'Isola, insieme a centinaia d'indigeni mercenari, per catturare lui, Victor il fuggitivo.
Se l'avessero immaginato e scoperto là in cima non avrebbe avuto scampo, su quel cucuzzolo circolare, nudo e brullo: non avrebbe potuto sfuggire ancora.
Non aveva che un'alternativa, quella già calcolata: che giungesse a salvarlo l'amico Mago a bordo della prodigiosa Macchina Volante.
Restava il problema di farsi trovare da lui.
Victor sapeva bene per esperienza quanto fosse improbabile individuare dall'alto, volando sopra paesaggi mimetici e discontinui, una cosa, un animale, una persona.
Andò allora a controllare la buca, appena all'interno del cratere, dove aveva la sera prima stivato la grande fascina di arbusti, portata sin lassù per realizzare un fumoso fallò di segnalazione.
Organizzò al meglio quegli sterpi, incrociandoli a strati, a mò di pira e poi con una parte di quelli, ancora verdi, intrecciò una sorta di grande ventaglio, che posato sulle fiamme ne avrebbe causato i fumi di segnalazione.
Terminate quelle operazioni il sole era appena uscito dal mare ed a Victor non restò che attendere speranzoso l'arrivo del Mago.
Architagora era ad oltre mille miglia e si apprestava a decollare.
Ritornato nel Regno di Continental e consegnata la Principessa Monia sana e salva, si era subito dedicato a preparare la nave volante per la missione di salvataggio oltre l'Isola del Te, dove sperava di poter recuperare al più presto Victor, che aveva lasciato prigioniero della nave ammiraglia Indiana.
La preparazione della macchina prevedeva la massima ricarica di energia, per avere la maggior autonomia di volo possibile.
Autonomia che arrivava sino a 18 ore di volo, muovendo ad una velocità di crociera di circa 200 nodi (370 chilometri l'ora).
Per ottenerla occorrevano tre giorni interi.
All'alba del quarto giorno, il quinto da quando il Mago aveva dovuto abbandonare Victor prigioniero di Karimbad, Architagora era infine pronto per salpare, involandosi alla ricerca del suo pupillo.
Si levò rapido e lieve, volando a bassa quota sul mare, sfruttando la portanza della maggiore densità dell'aria.
In effetti era come se la macchina vi galleggiasse, ad una quota di circa cento metri di altezza, senza sussulti ne vibrazioni, nel silenzio totale, con le onde che correvano sotto, spumose ed intangibili.
Cinque ore dopo il Mago raggiunse l'Isola del Tè e mentre stava velocemente superandola, intravide i velieri indiani ancorati nella baia principale.
Secondo i suoi calcoli, anche facendo scalo per i necessari rifornimenti, quelle navi dovevano ormai essere ben oltre, in navigazione verso l'Oriente da almeno un giorno. Cosa poteva essere accaduto ? Victor, astuto, audace e determinato fosse riuscito a fuggire dandosi alla macchia ? Questa era la spiegazione più probabile.
Il Mago decise allora, prima di tentare un difficile e pericoloso atterraggio sull'Isola, di farvi un largo giro di ricognizione a bassa quota.
Il sole era ormai alto sull'orizzonte, prossimo allo Zenit (mezzogiorno), e Victor aveva giustamente calcolato che quella poteva essere l'ora più probabile in cui arrivasse dal cielo il suo salvataggio.
Aveva perciò intensificato l'osservazione scrupolosa di tutto l'immenso panorama che lo circondava: l'enorme distesa marina che circondava l'Isola, la giungla tropicale sottostante, le rocce, le baie, le infinite insenature, le verdi alture degradanti tutt'intorno all'alta vetta del vulcano.
Il suo era un punto di osservazione relativamente previlegiato, i cui limiti erano nel fatto che sicuramente la macchina volante sarebbe levitata ad una quota assai inferiore ai tremila metri del punto da cui Victor osservava, rischiando di confondersi alla sua vista nel variegato paesaggio: mentre assai più facile era intravedere un oggetto volante contro la chiara, uniforme distesa del cielo.
Consapevole di questo e della totale silenziosità della macchina, che non avrebbe neppure potuto udire,Victor osservava con la massima l’attenzione, sapendo che era comunque aleatorio riuscire a scorgere un puntino volante là sotto, a bassa quota, tra il verde e le calanche rocciose.
Assai più facile era invece che il prodigio aereo fosse scorto dal basso.
Il Mago in ricognizione passo a bassa quota vicino i velieri all’ancora ed i marinai di guardia lo videro volare a circa mezzo miglio verso l’interno dell’Isola.
Urlando come forsennati per lo stupore, subito armarono i cannoni ed iniziarono a bombardare in direzione dello strano, enorme uccello volante, che loro tuttavia già ormai conoscevano per essere il prodigioso vascello volante del Mago che aveva ripreso e portata via la principessa Monia giorni prima, in alto mare.
Le grosse palle di cannone non sfiorarono neppure la macchina volante, ma richiamarono l’attenzione, così che infine tutti videro volare a bassa quota la prodigiosa navicella. Contro la quale, al suo più prossimo passaggio, gli indigeni arcieri ed i marinai dotati di grossi schioppi da fuoco, spararono nugoli di frecce e pallettoni di piombo, anch’essi senza tuttavia colpo ferire.
Il fragore degli spari udì lontano anche Victor, dalla sua altissima postazione, che scrutando con la massima acutezza in quella direzione scorse il minuscolo oggetto volante a bassa quota, quasi radente il suolo.
Si precipitò allora ad accendere il suo fallò, che nel giro di pochi minuti già levava fumose nuvole nerastre, rendendo al Vulcano una parvenza di attività eruttiva.
Fumo che fù presto notato con grande preoccupazione dagli indigeni, subito allarmati per un pericolo imminente di eruzione di lava, ceneri e lapilli.
Anche i marinai sull’isola, ne furono analogamente preoccupati..
Anche Architagora vide quel fumo, ma capì che non poteva essere che un segnale, non avendo caratteristiche né portata vulcaniche.
Era probabilmente opera di Victor, il suo validissimo allievo che gli stava segnalando la sua presenza e posizione !
Subito il Mago pilotò il velivolo in quella direzione e Victor capì che i suoi messaggi di fumo avevano funzionato. Dopo pochi secondi la Macchina Volante veleggiava sopra il cratere, sulla spirale di fumo, accanto alla quale Victor si sbracciava in energici ed entusiastici cenni di saluto.
Il Mago avvicinò l’apparecchio volante, lasciandolo poi levitare, immobile, una decina di metri sopra il bordo del cratere dove si trovava il suo allievo e da lì calò una scala di corda, su cui Victor si arrampicò agilmente, arrivando in un attimo a bordo della macchina, dove potè riabbracciare il suo amico salvatore.
Intanto a valle, in tutta l’Isola gli Indigeni erano entrati in grande agitazione:
il grande Dio Vulcano si era risvegliato da un lungo sonno durato tantissimi anni ed aveva ripreso a fumare. Non si udivano ancora i tipici brontolii, i tremori della terra ed i boati che precedono ed accompagnano le eruzioni, come ben sapevano loro malgrado gli indigeni più anziani, ma il fumo era un chiaro segnale di ripresa: la grande montagna sacra stava tornando a vivere e dopo un così lungo digiuno reclamava sicuramente il suo pasto, nefasto e crudele: un sacrificio umano !
Una vita doveva essere sacrificata nella bocca del vulcano, quella di una fanciulla, vergine e tra le più leggiadre, che sarebbe stata condotta a forza sino alla cresta del cratere e crudelmente precipitata al suo interno.
Solo quel sacrificio rituale avrebbe potuto placare la fame del grande, mostruoso Dio crudele, nutrito di carni e sangue della fanciulla.
Ma se quel sacrificio non fosse stato sufficiente altri sarebbero stati compiuti, imolando nel cratere altre giovani vite innocenti. C’era ancora qualche vecchio che ricordava come mezzo secolo prima 40 verigini fossero state sacrificate, buttandole nel cratere, una dopo l’altra, nel volgere tre lune !
Infine gli inutili sacrifici cessarono, non perché terminasse l’attività del Dio Mostro, ma perché anzi, le eruzioni si fecero talmente violente e terribili da mettere in pericolo anche la vita di chiunque avesse osato recarsi fin là in cima, sul cratere o anche solo avesse tentato di avvicinarlo.
Ma ora il Capo degli Stregoni chiamò a raccolta i maggiorenti della Tribù.
Che come lui stesso da tempo immemorabile attendevano una simile occasione, una bella eruzione che permettesse la grande celebrazione di un rito arcaico dei più sentiti nella tradizione, tanto atteso nelle isatanze più lugubri, perversamente instintuali di quella primitiva popolazione.
Si sarebbe dovuto procedere rapidamente, così da non permettere al Dio Mostro di accrescere la sua attività eruttiva, determinando danni assai pericolosi.
In ogni caso, se pur velocemente, occorreva compiere tutti i passi rituali previsti:
radunare la popolazione, scegliere la giovinetta da sacrificare, organizzare la processione dotandola di tutti i simboli e le procedure istruite dal cerimoniale, per recarsi infine sino in cima al vulcano, un viaggio di almeno otto ore, per celebrarvi il sacrificio.
Intimamente emozionato dall’occasione tanto attesa, il lugubre ed arapato Stregone, conscio di tutto il lavoro da fare e dell’urgenza che richiedeva, subito diede tutti gli ordini necessari perché si provvedessero le prime incombenze, incluso quello di richiamare indietro dalle alture silvestri dell’Isola tutti coloro che vi si erano sparpagliati alla caccia mercenaria di Victor.
Inviò perciò dei messaggeri corridori, ma fece anche risuonare i tam tam di segnalzione per l’impellente adunata di tutta la popolazione, causa il grave incombente pericolo.
I marinai indiani ed i loro comandanti, anch’essi in gran parte inoltrati nella giungla dell’Isola alla ricerca di Victor, non avevano affatto scorto il fumo uscire dalla bocca vulcanica e quando udirono il risuonare dei tam tam e videro tutti gli indigeni allertati dal messaggio sonoro voltarsi per correre verso il Villaggio principale, immaginarono che ciò significasse unicamente una cosa: che Victor era stato catturato !
Così anch’essi girarono i tacchi per ridiscendere verso la costa.
Lo fecere anche quei pochi che avevano altrimenti immaginato il giusto, i pochissimi che avevano visto la magica Macchina Volante alzarsi e puntare verso la vetta ora fumante del cratere…
Ma la maggior parte degli inseguitori non aveva potuto vedere questa manovra, essendo immersa tra gli alti alberi della foresta tropicale e quindi assolutamente limitata nella possibilità di scorgere alcunchè fosse oltre poche decine di metri o anche meno.
Né i segugi, i cani che sino ad allora avevano funzionato da guida, erano affatto in grado d’indovinare quella pista.
Mentre l’attenzione di tutti si era sposatata verso la presunta eruzione del Vulcano e sulla necessità impellente di placarne l’ira sul nascere, Victor ormai planava nell’aria, oltre il cratere, verso il lato più deserto dell’Isola, a bordo del velivolo condotto da Architagora.
Che subito lo aggiornò sulla situazione: “ragazzo mio” gli disse, “contrariamente a quanto avevo sperato e calcolato non siamo in grado di abbandonare subito questa terra…Per giungere fino qui ho trovato forti venti contrari che mi hanno costretto a consumare più energia del previsto, riducendo così di molto l’autonomia necessaria per il volo di ritorno. Ripartendo subito, anche se trovassimo il miglior vento a favore, rischieremmo comunque di finire in mare, rialzarci poi in volo dal quale potrebbe essere assai rischioso se non perfino impossibile.
Né conosco alcun’altra terra sulla nostra rotta su cui fare scalo.
Non ci resta in conclusione che restare su quest’Isola il tempo necessario per ricaricare la macchina di tutta l’energia necessaria, cioè sino a domani pomeriggio.
Cerchiamo quindi una zona sicura e defilata in cui atterrare ed attendere il tempo che ci occorre per fare il pieno e poi ripartire. E nel frattempo magari anche riposarci: credo che tu sopratutto ne abbia bisogno dopo le dure avventure che hai vissuto in questi ultimi giorni ! A proposito, raccontami un po’…”
E mentre il Mago cercava un approdo a terra, una sia pur breve radura in cui planare verticalmente, ben nascosta più che non defilata, Victor lo aggiornò sulle sue più recenti, epiche traversie: la fuga dalla nave e poi nella giungla tropicale, verso il Vulcano.
Nella grande piazza del Villaggio Capoluogo dell’Isola si era intanto radunata una grande folla, cui concorreva anche la presenza dei marinai Indiani, che cercavano faticosamente di capire che cosa fosse accaduto.
Sul palco delle autorità lo Stregone Capo, circondato dai Notabili in forze arringava stentoreamente la folla. Con voce urlante, minacciosamente preoccupata, indicava la vetta del Vulcano, la Montagna Sacra da qui si levava un per altro assai modesto filo di fumo, forse enfatizzato dal vento che spirava soprattutto ad alta quota.
Lo Stregone arringava la gran massa dei presenti definendo il gran pericolo che rappresentava quel fumo: era l’evidente segno d’ira del Dio Vulcano, ridestatosi affamato dopo tanti anni e perciò sicuramente bramoso di sangue umano.
La tradizione rituale prevedeva che in questi casi s’imolasse una vergine, possibilmente la più bella giovinetta tra le fanciulle illibate, nel tentativo di placare la vorace ira del grande Idolo, nella cui bocca senza fine la vittima sarebbe stata precipitata.
Occorreva quindi subito, quel giorno stesso, provvedere alla selezione della vittima sacrificale, eletta a sfamare il Dio, perché già il mattino successivo la si sarebbe condotta in processione sino all’orlo del cratere, per compiervi il sacrificio.
Non fosse stata per l’urgenza, che un po’ ne sminuiva l’enfasi, quell’avvenimento rappresentava uno dei fatti più clamorosi accaduti nella recente storia dell’Isola, di fronte al quale la fuga di Victor e la caccia lanciata alla sua ricerca diventavano bazzeccole.
L’attenzione e la tensione di tutti erano massime !
Ed era palese come per lo Stregone, per i Maggiorenti e per la popolazione ciò rappresentasse una formidabile occasione di eventualità mondana, di happening catartico, efficacissimo per scatenare pulsioni e transfert appartenenti alla sfera delle emozioni più discutibili e deteriori, ciònondimeno irrinunciabili !
Anche perché utili a ribadire il carisma dell’Autorità costituita.
Velocemente e ieraticamente esperite e motivate le varie considerazioni di rito, fù subito designata la vittima: furono cioè radunate brutalmente davanti al pulpito delle Autorità, seduta stante, una decina di giovinette pressochè ignare di quanto stesse veramente accadendo e tra di esse fù scelta, la vittima sacrificale, la più bella, quindi la più adatta a soddisfare l’ingorda bramosia del grande idolo crudele.
Ma tutte furono comunque trattenute ed imprigionate sotto la custodia dello Stregone, perché qualora non fosse bastata la prima vittima, a sedare la fame di Vulcano, anche le altre sarebbero state via via sacrificate, precipitandole all’interno del cratere, una via l’altra, finchè il Mostro non avesse cessato di manifestare fumando la sua bramosia.
La fanciulla prescelta per il mortale sacrificio non era solo la più bella, era anche la più intelligente e brava figliola di un grande capo guerriero, appartenente ad una tribù d’indigeni che viveva sul lato Nord dell’Isola, separata dal resto della popolazione e che il Re Stregone non era mai riuscito a sottomettere al suo potere.
Poteva quindi esserci anche un interesse particolare nella scelta di quella ragazza, con l’acido sapore della ripicca, della vendetta e dell’intimidazione.
Il padre di lei, per quanto desolato, non poteva intervenire contro quella terribile decisione che aveva indicato sua figlia come vittima mortale del grande rito sacrificale. Tra l’altro avrebbe dovuto essere per lui un grande onore, secondo il modo di pensare della popolazione, indotto dallo Stregone Capo e dalla sua accolita di maggiorenti. Se avesse provato ad opporsi sarebbe stata sicuramente la guerra tra le opposte fazioni ed una guerra persa in partenza, per la stragrande preponderanza degli avversari, tutti fortemente condizionati dai dogmi della superstizione.
Così il terribile destino della povera fanciulla era irrimediabilmente segnato: la mattina dopo sarebbe stata condotto in processione sino in vetta al cratere per esservi poi buttata dentro, nella sua profondità senza fine, verso l’inferno di fuoco da cui perveniva quel fumo.
Ma anche qualora il Vulcano avesse smesso di fumare, come era più certo che probabile, il sacrificio avrebbe tuttavia avuto comunque luogo.
Dopo tutta quell’attenzione provocata nella folla, dopo tutto l’impegno profuso dallo Stregone e compagnia, il rito doveva comunque aver luogo, la vittima doveva essere imolata, lo spettacolo doveva aver luogo !
Le motivazioni non sarebbero mancate, nella logica perversa dello Stregone: gli sarebbe bastato affermare che occorreva comunque placare ogni possibili ulteriore velleità del Vulcano, che comunque un segnale di pericolo lo aveva mandato.
Intanto Victor ed il Mago erano planati in una preve radura, leggermennte scoscesa ma comunque utile per l’atterraggio, nella parte Nord Ovest dell’Isola, quella che pareva essere del tutto disabitata. La radura si trovava a circa 1.500 metri di altitudine, ma era circondata da una fitta vegetazione nella quale Victor ed Architagora s’inoltrarono in ricognizione per alcune centinaia di metri, per verificare l’eventuale presenza di pericoli o comunque tracce di transiti umani.
Trovarono solo impronte di facoceri e verificarono la presenza di altre specie animali, sia volatili che terrestri, anche grazie alle palesi reazioni del cane Nuppo, che ne avvertiva odori e rumori in quantità.
La macchina volante aveva provviste alimentari ed acqua per diversi giorni, per cui non ebbero la necessità di cercarne in quei luoghi.
Ritornati a bordo del velivolo era ormai ora di cena e di riposo, e poi si affidarono all’affidabile guardia del cane, ma non solo.
Il Mago Scienziato aveva dotata la navicella di un sistema di allarme in grado di avvertire qualsiasi presenza di una certa massa corporea (almeno 40 chili) nel raggio circostante di un centinaio di metri, in quel caso nei più brevi limiti della radura scoperta.
La notte trascorse tranquilla e silenziosa e l’alba sopraggiunse chiara e limpida, con l’umida fragranza degli odori che emanavano dalla foresta tutt’intorno.
Victor, il Mago ed il cane Nuppo scesero a sgranchirsi prima di collazione, facendo un po’ di ginnastica sul prato. Architagora non domostrava che vagamente la suà età avanzata, giusto il biancore del suo pelo la tradiva, avendo per altro un aspetto assai tonico, aitante, privo delle pecche tipiche degli anziani, le cicatrici del tempo…
Era anche molto agile, sciolto nei movimenti, rapido nei riflessi e vigoroso nella muscolatura. Risalirono dopo gli esercizi a bordo del vascello volante per fare colazione, con calma. Avevano ancora diverse ore da attendere per completare la ricarica dell’energia necessaria per il volo di rientro.
Ricarica che avveniva per una sorta di magia, assimilabile a quella del moto perpetuo: la macchina, mentre era ferma al suolo, lavorando con i motori al minimo, riusciva a produrre più energia di quanta non ne consumasse in tale situazione (ferma, con il motore al minimo) ! Ciò che era dovuto ad uno strano e complicato sistema d’interazione con l’invisibile energia cosmica fluttuante nell’atmosfera, ed a quella del sole e del vento.
Non altrettanto serena e tranquilla era trascorsa la notte per la povera fanciulla destinata al rito scarificale, né per i suoi parenti, incerti tra il dolore, la rabbia e l’ineluttabilità pragmatica dell’evento rituale.
Anche il sonno di molti altri attori di quell’accadimento era stato turbato, ma da altri sentimenti, di lubrica attesa per il sadico piacere che quel drammatico spettacolo di sangue avrebbe loro reso il giorno successivo !
Giorno che infine giunse anche per loro e nessuno mancava alla partenza della processione, sulla grande piazza del villaggio. Tutti bardati di costumi, armi e colori variopinti, partirono con la fanciulla piangente legata a metà della colonna, per il lungo cammino che li avrebbe condotti, dopo almeno otto ore in cima al Vulcano, costantemente accompagnati dallo stentoreo battere dei tamburi.
Risalire a piedi 3.000 metri, dal livello del mare dove era il villaggio sino alla vetta del cratere, non era passeggiata da poco, in particolare se fatto in processione bardati di orpelli rituali, esaltanti la liturgia che l’avvenimento implicava.
Otto ore di viaggio per la sola andata erano una tabella di marcia sicuramente impegnativa, così la processione si mosse all’alba, all’incirca all’ora sesta.
Così che fù prossima a raggiungere l’orlo del cratere otto ore più tardi, quando incrociò la macchina volante, che nel totale silenzio del suo procedere, spuntò volando in quota dal lato ovest del Vulcano, creando immediatamente panico e scompiglio tra le centinaia di indigeni che salivano in processione.
Il fuoco di segnalazione acceso il giorno prima da Victor si era spento la sera stessa, ma come previsto ciò non aveva fermato la folla, bramosa di assoporare la sua libbra di carne nell’orgia del rito sacrificale ormai programmato.
Architagora e Victor trascorsero la mattinata nell’attesa per la ricarica d’energia della macchina, che fù completa quando il sole ebbe superato lo Zenit.
Allora partirono, decollando verso Ovest, ma dopo sole poche centinaia di metri udirono un ritmico battere dei tamburi porvenire giusto dalla direzione in cui stavano muovendo silenziosi, subito oltre la vetta del Vulcano.
Proseguendo furono subito a ridosso della processione che s’inerpicava verso il cratere. Rallentando ebbero anche modo di scorgere la povera fanciulla legata, che vedendoli arrivare aveva loro indirizzato disperate grida d’aiuto.
Il Mago, grazie al suo grande acume ed alla enorme esperienza di vita ed avventure capì immediatamente che cosa era accaduto e ne diede spiegazione a Victor, che non riusciva a capacitarsi per quella strana cordata risalente il Vulcano: che stessero ancora cercando lui, così acconci e bardati in fila indiana ?
“Non stanno cercando te, stanno compiendo un rito sacrificale per placare il risveglio del Vulcano che il tuo fuoco di segnalazione gli ha fatto credere si stesse risvegliando.
La vittima del sacrificio è la fanciulla piangente che invoca aiuto, legata a circa metà della processione. Probabilmente verrà gettata viva nel cratere per scongiurare il pericolo di un’eruzione: è un tipico rito tribale delle tribù selvagge che popolano gran parte delle isole e delle coste del grande Mare Oceano”.
A quella rivelazione Victor rimase costernato, allibito dall’enormità delle conseguenze da lui involontariamente causate accendendo il suo fallò di segnalazione !
Subito si sentì responsabile e deciso a porvi in qualunque modo rimedio:
“Dobbiamo intervenire” disse al Mago, “Dobbiamo salvare quella povera ragazza innocente !”.
Architagora aveva tranquillamente previsto quella reazione di Victor.”Se proprio vuoi possiamo provarci, ma non sarà facile e sicuramente molto pericoloso”.
E quasi a ribadire quell’affermazione ecco arrivare verso di loro un nugolo di frecce, scagliate dai guerrieri di scorta alla processione contro quell’enorme, strano e silenzioso volatile.
Il Mago eseguì una rapida cabrata, così che solo pochi dardi colpirono la carlinga del velivolo alla base senza provocare alcun danno.
Poi continuò a salire di quota, allontanandosi dalla portata di quei proiettili, mentre già stava rimuginando un piano d’azione per liberare anche quest’altra “principessa”, perché tale probabilmente era anche lei, per discendenza di stirpe nella sua Tribù.
Bisognava intervenire al più presto, prima che la processione armata raggiungesse il bordo del cratere: una volta che si fossero là in cima schierati il loro tiro sarebbe divenuto assai più efficace e pericoloso. Ma attaccare quella colonna sul dirupo scosceso, calando dal cielo e salvaguardando l’incolumità della ragazza era troppo
rischioso, impensabile. Né esistevano alternative praticabili, tranne che una, che il Mago decise senzaltro di addottare. Avrebbe utilizzato un dispositivo mimetizzante della macchina che richiedeva molta energia, ma avevano appena fatto il pieno, per cui ne sarebbe probabilmente rimasta a sufficienza per garantire l’autonomia del viaggio di ritorno. La macchina volante poteva infatti emettere un abbondante getto di vapore, in grado di formare una piccola nube dietro cui celarsi.
Spiegò brevemente quel piano d’azione a Victor, che entusiasta subito lo condivise e passarono all’azione.
Scesero allora velocemente, di sorpresa sulla processione arrancante, calcolando la forza e direzione del vento, così da prevenirne il più possibile l’azione dissolvente della loro nube mimetica. I guerrieri non ebbero quasi tempo d’incoccare le frecce, ne di armare i giavvellotti che furono improvvisamente avvolti in una densa, calda nube di vapore. In quella Victor si calò rapidamente alla cieca con una lunga fune, sino a toccare il suolo, presumibilmente il più vicino possibile al punto in cui aveva mirato alla posizione della fanciulla da salvare. Non sbagliò di molto, ma come previsto dovette ingaggiare alcuni rapidi duelli con i guerrieri di scorta, avendo tuttavia il vantaggio della sorpresa. Dovette neutralizzarne almeno cinque o sei prima di trovare la ragazza, che rapidamente slegò mentre cercava di tranquillizzarla.
Quindi con lei ritornò sui suoi passi , sollecitandone la corsa mentre la teneva per mano, sempre dentro la nube: ora c’era la parte più difficile, ritrovare la fune che pendava dalla navicella. Brancolando in quella nebbia Victor si trovò ancora ad affronatare altri guerrieri, ma con l’aiuto del fattore sorpresa ne ebbe tuttavia ragione. Poi giunse un colpò di vento che spazzò via quel fumo e tutto fù subito di nuovo visibile per tutti !
Victor vide la fune che dondolava a circa 30 metri sopra la sua testa, in alto verso il cratere; il Mago vide lui, con la ragazza per mano, che correvano in direzione della fune; diversi indios della cordata videro sia i fuggitivi che la sovrastante macchina volante e rimasero indecisi, fortunatamente per alcuni secondi, su chi scagliare prima le loro armi…
Secondi preziosi sia per Victor che per il Mago, che subito erano partiti alla volta reciproca: in un attimo il vascello levitante calò verso i fuggitivi e con lui la fune mentre, quasi altrettanto rapidamente, Victor e la fanciulla furono a portata della fune. Victor l’avvinghiò saldamente con le gambe ed un braccio, mentre con l’altro stringeva saldamente a se la ragazza, invitandola ad afferrare anche lei la corda con tutte le sue forze.
Come Architagora li vide così avvinghiati ripartì decisamente verso l’esterno e verso l’alto, così da portarsi immediatamente fuori tiro.
Solo qualche dardo giunse a sfiorare i giovani dondolanti sotto la macchina in volo,
ma senza colpirli. Poco oltre, passato ad un’andatura regolare ed automaticamente gestita, il Mago provvide a recuperare la fune, con i giovani appesi, utilizzando un comodo paranco a motore.
Quando furono a bordo, Victor fù immediatamente colpito dalla smagliante bellezza della ragazza. Amuoaha, così si chiamava era quel che si dice uno schianto di fanciulla, slanciata e sinuosa, di una tonicità morbida ed atletica, probabile conseguenza della quotidiana e prolungata pratica del nuoto, aveva grandi occhi scuri, labbra turgide, denti bianchissimi e lunghi capelli neri, pelle ambrata, liscia e morbidissima…, costituiva la quintessenza della bellezza muliebre dei mari del sud !
Victor notò tutto questo ed altro ancora…e ne fù segnatamente colpito…
Ugualmente la fanciulla, nonostante lo sgomento per i tremendi shock subiti nelle ultime 24 ore, fù in grado di recepire ed apprezzare l’aitante immagine del suo bel
salvatore, l’intrepido eroe che l’aveva salvata dall’orribile morte cui era ormai destinata.
A suo volta il Mago, vecchia volpe sorniona, ebbe a notare l’intensa corrente di reciproci apprezzamento ed attrazione che palesemente era divenuta palpabile più che evidente tra quei due formidabili campioni di avvenenza…
E qui, puntini, puntini, puntini…termina anche quest’altra lunga narrazione…
Perché il Mago, conscio e complice delle evidenti implicazioni per il nuovo, inaspettato avvenimento, s’inventò quella sera una sosta su di un’isola deserta, paventando la necessità di una ricarica d’energia di cui la macchina in realtà non aveva bisogno…
Durante la quale sosta i due giovani ebbero modo di approfondire le reciproche attrazione ed affinità…, così che già al termine del giorno successivo, a ricarica ufficialmente effettuata, Victor disse al Mago che forse non era il caso di ritornare subito al Regno di Continental per reincontrare la Principessa Monia, formalmente ormai sua prevista sposa più che non promessa.
Forse, disse Victor, era meglio ritornare prima al castello del Mago, a Dovestan, il loro paese, per trovare una nuova soluzione di vita per Amuoaha, la povera… bellissima ragazza, che non avrebbe mai più potuto far ritorno tra la sua gente dopo aver infranto il tabù del sacrificio.
Il Mago, che già attendeva quel tipo di soluzione, sorrise sornione e concordò sulla “saggia” decisione presa dal suo pupillo.
E fù così che si librarono in volo per il Castello di Dovestan, dove vissero a lungo.
Felici e contenti.
Io ebbi modo di conoscerli alcuni anni più tardi, mentre veleggiavo in solitario nel mare Oceano: feci giusto scalo a Dovestan ed ebbi a godere della loro squisita ospitalità. Avevano nel frattempo avuto due bellissimi bimbi, Korallina e Dolfin, per i quali il vecchio Mago ben fungeva da nonno burbero-gentile…
Mi raccontarono anche di essere venuti a conoscenza del matrimonio di Monia con il principe Karimbad: sembra che, nonostante tutto quell’evento fosse altamente predestinato e solo la temporanea, involontaria intrusione di Victor l’aveva ritardato.
Karim in effetti era poi ritornato in gramaglie, ma carico di doni inestimabili, a chiedere venia al Re di Continental e la mano di sua figlia.
Il Re, non vedendo più ritornare Victor, lo diede per morto ed impose un lutto di sei mesi, dopo di chè acconsenti al matrimonio di Monia con Karim.
Monia non ebbe ad obbiettare, anzi ! Prima di conoscere Victor, vincitore del torneo, era già stata richiesta e piacevolmente coinvolta verso il bell’Indiano.
Così anche loro infine vissero per sempre felci e contenti.
Così come auguro anche a voi,
nonnorso.
,
sabato 5 novembre 2011
LA PRINCIPESSA RAPITA 4^ Parte
La Principessa rapita 4^ Parte
Victor rimase svariati minuti appeso agli arbusti, sul drammatico baratro sopra la cascata, a strapiombo sul salto abissale in cui l'acqua precipitava fragorosamente.
Vi restò ansimando, assordato dall'immane boato, a smaltire tachicardia ed affanno, per il grande sforzo e l'eccezionale emozione di quell'utlima avventura, in cui aveva ancora sfiorato la morte.
Ma non era finita, gli inseguitori probabilmente incalzavano: mentre nuotava attraversando il lago dopo il tuffo rocambolesco, Victor aveva notato in lontananza, all'inizio del piccolo bacino, là dove le pareti a strapiombo dei fianchi rocciosi del canion si stringevano sino a poche decine di metri, aveva intravisto un ponte di liane sospese...
Sicuramente chi gli dava la caccia conosceva quel passaggio sopra il canion e e si era diretto a quella volta.
Victor riconsiderò allora l’intenzione di risalire verso le alture, all'interno dell'Isola,dove forse sarebbe stato più facile ricongiungersi alla macchina volante del suo amico Mago: andando da quella parte sarebbe probabilmente finito in bocca agli inseguitori.
Ma anche ridiscendere comportava il rischio di rimanere circondato da altri ancora, lanciati da ogni dove alla sua cattura. Senza contare che dal punto in cui si trovava il pendio era tale che per ridiscenderlo sarebbe stato assai più utile un paracadute… che non una lunga fune da rocciatore. E lui non aveva nè l’uno né l’altra.
Recuperato che ebbe fiato a sufficienza per ripartire, Victor si risolse a continuare la risalita: avrebbe inventata qualche soluzione per sfuggire ancora agli immediati inseguitori, magari depistandoli.
L'erta su cui saliva era quasi verticale, resa ancor più ardua da un fitto intrico di vegetazione, che per quanto fastidiosa da penetrare gli tornava utile per potersi arrampicare.
Procedeva necessariamente a rilento, ma dopo circa un ora di fatica raggiunse quello che poteva essere il bordo superiore della scoscesa scarpata, oltre il quale, improvvisamente il pendio diveniva meno drammaticamente inclinato, quasi dolce, infittendosi tuttavia di nuovo la vegetazione.
Ormai udiva lontano e soffuso il rombo della cascata, così che avanzando in quella sorta di altipiano sentì dei grugniti, davanti a lui, stimò ad un centinaio di metri. Si armò allora di un grosso bastone, agguzandone la punta con una pietra tagliente e branditolo a mò di lancia riprese ad avanzare. Giunse in una breve radura, dove la giungla diradava, ed in quella scorse un gruppo di facoceri che stava nutrendosi di radici affioranti dal suolo, che loro stessi avevano scavato.
Gli animali, probabile ambita preda dei cacciatori isolani, avvertita la sua presenza emisero degli striduli ruggiti, ma infine si dettero alla fuga, temendo in lui un possibile predatore.
Victor continuò ad avanzare, finche si trovò a ridosso di liquami assai puzzolenti, deiezioni scaricate in loco da quelle bestie.
Istintivamente deviò storcendo il naso, ma ebbe poi subito invece una ispirazione: rotolarsi in quegli escrementi dal terribile sentore avrebbe mimetizzato completamente le proprie tracce all'olfatto dei segugi che lo stavano inseguendo !
Vincendo l'enorme riluttanza che ovviamente gli ispirava quell'azione, forzata da imprescindibili motivi di sopravivenza, Victor si spalmò dunque, con grande ribrezzo, da capo a piedi con la merda dei facoceri.
Non faceva spesso così, per atavico istinto, anche il suo cane Nuppo ?
Quante volte aveva dovuto rimproverarlo e poi strigliarlo, dopo che si era felicemente rotolato nei liquami dei cinghiali, in mezzo ai boschi ?
Era il tipico comportamento di ogni predatore per annullare il proprio odore e rendersi perciò olfattivamente innavertibile alla sua preda.
Ma ora era lui, Victor, la preda che doveva mimetizzarsi dai cacciatori, i segugi lanciati sulle sue tracce, che quella puzza avrebbero sicuramente annullate, sconvolgendo le delicate narici dei cani !
Così...rivestito di oleazzante, nauseabondo sentore, Victor riprese ad avanzare su per quel pendio, ora più lieve, dove una macchia tipo Savana stava progressivamente sostituendo la Giungla, probabile conseguenza dell'altitudine di quella zona, ormai oltre i duemila metri.
Ben presto a Victor sembrò di percepire un vago latrare dei cani.
Un rumore lontano, inizialmente confuso con il sordo rombo della cascata, poi via via crescente, sino a diventare nitidamente distinguibile: erano i suoi inseguitori che guidavano i cani alla ricerca delle sue tracce perdute oltre il fiume, probabilmente superato scavalcandolo grazie al ponte di liane.
Victor per evitarli non poteva ora che confidare nel mimetismo olfattivo di cui si era dotato…, tranne tentare la fuga verso valle, opzione che già aveva scartata.
In ogni caso doveva evitare di incontrarli, di farsi vedere !
Poteva perciò scartare di lato, cercando di aggirare il fronte degli inseguitori in arrivo, ma non aveva idea di quanto fosse largo e come disposto…
L’unica altra alternativa era di arrampicarsi su di un albero, nascondendosi tra le sue fronde, o trovare una buca profonda, una grotta, una tana ben celata nell’intrico del sottobosco.
Ma non aveva ormai molto tempo per cercare, più facile trovare un albero adatto per rifugiarvisi: ne scelse un altissimo, assai fitto di rami e di vegetazione, una sorta di grande acacia che svettava nell’alta savana dell’Isola.
I suoi primi rami verso il suolo erano ad un’altezza di almeno 4 o 5 metri, impossibili da raggiungere con un balzo, né il tronco permetteva, così ampio e privo di altri appigli, di arrampicarvisi. Ciò che poteva essere un vantaggio, perché difficilmente i suoi inseguitori lo avrebbero cercato su quello, qualora i cani l’avessero preso di mira. Ma era anche problematico scalarne le base, non essendovi nelle immediate vicinanze altre piante che gli potessero fare da ponte per la risalita.
Victor possedeva tuttavia risorse tali da poter velocemente risolvere quel problema.
Una liana lanciata a mo di fune avrebbe potuto andargli bene, ma quelle radici aeree erano sparite nell’alta zona boschiva. Cercò allora una pertica, un palo che gli facesse da supporto. Trovò poco lungi un lungo, dritto ramo pendente da un altro albero, che arrivava a circa tre metri dal suolo. Con un agile balzo Victor lo raggiunse, vi si appese ed iniziò a dondolarvisi gravandone con il suo peso l’estremità, sinchè l’udì scricchiolare, cedere ed infine schiantare al suolo.
Ne verifico l’estremità rotta, abbastanza compatta per funzionare da puntale.
Impugnando quella pertica improvvisata tornò verso l’alta acacia, mentre il latrare dei cani era sempre più vicino. Calcolò allora un tratto d’avvicinamento all’albero sufficientemente lungo e sgombro di vegetazione e prese la rincorsa: in crescendo di velocità arrivò con il puntale di quell’asta contro la base dell’albero e saltò, brandendola all’estremità opposta, così che insieme a lei si sollevò, raggiungendo i primi rami dell’alta pianta.
Ne afferrò uno con un braccio e con le gambe, ma senza mollare la presa della pertica, che intendeva recuperare issandola sull’albero affinchè non rimanesse al suolo la possibile traccia del suo funambulismo.
Fù un esercizio arduo e faticoso, ma infine l’agile e forte Victor riuscì a posizionarsi seduto sul ramo, con l’asta ancora brandita in una mano.
La tirò su e la nascose tra le fronde, fissandovela nascosta per bene ed iniziò poi a risalire l’altissima pianta, mentre l’abbaiare dei cani era ormai, calcolò, a poche centinaia di metri. Salì veloce, il più in alto possibile, giungendo ad una ventina di metri dal suolo, finchè trovò rami abbastanza solidi da poter reggere in sicurezza il suo peso. E là in cima ristette, immobile nel silenzio totale, unicamente avvertendo il rumore degli inseguitori e la propria, confortante puzza di letame suino.
Terribile all’olfatto, ma sicuramente tale da sovrastare il suo proprio odore corporeo, quello che i cani ormai sopragiunti stavano cercando dopo averlo perso di là dal fiume.
Arrivarono sotto di lui, intensificando preoccupantemente i latrati per l’improvvisa nuova zaffata odorosa che le mollecole di escrementi di facocero disperdevano lì intorno ! Girarono intorno all’albero, allargando la ricerca della nuova traccia, si che gli inseguitori provvidero a controllare attentamente la zona, scrutando bene anche verso l’alto.
Poi i cani ripresero a muovere, scendendo verso valle, inseguendo ora le inequivocabili tracce dei suinidi dai cui escrementi derivava la nuova pista a ritroso.
Victor attese là in cima lungamente, prima di muoversi.
Ne approfittò per riposarsi e per scrutare l’ambiente circostante da quella posizione vantaggiosa.
Sopra di lui, ad alcuni chilometri a monte s’ergeva un’alta vetta, conica ma priva di vertice al suo apice, probabile vulcano inattivo, le cui ripide falde uscivano brulle e rocciose dalla circostante savana.
Quella vetta superava probabilmente i 3.000 metri e poteva costituire un buon punto d’incontro con il Mago Architagora, se e quando fosse giunto sull’Isola alla sua ricerca a bordo della prodigiosa macchina volante.
Da là in cima, magari protetto da sguardi indiscreti all’interno del cratere, Victor avrebbe potuto tentare segnali di riconoscimento facilmente visibili dall’alto e significativi della sua presenza in loco.
Quando non fù più in grado di udire l’ormai lontano abbaiare dei segugi Victor discese dall’albero e riprese a salire verso monte, in direzione della vetta vulcanica.
Gli occorsero almeno tre ore per raggiungerla, attraverso il saltuario intrico di arbusti spinosi, poi arrampicandosi sull’erta, tagliente roccia lavica.
Fece alcune soste per cercare tra le rocce della pietra focaia con cui accendere un fuoco di segnalazione, per alimentare il quale si caricò di sterpi e rami secchi. Trovo anche un piccolo ruscello alla cui fonte si dissetò e lavò abbondantemente, ben sapendo che giunto in vetta difficilmente avrebbe trovato da bere e di che ripulirsi del fetido odore escrementizio.
La fame di quasi due giorni dovette invece tenersela tutta: a parte alcune improbabili bacche non c’era nulla di commestibile in quella vegetazione.
Quando fù in cima alla montagna, sull’orlo del cratere che precipitava drammaticamente anche all’interno, la sua fatica fù ampiamente premiata dalla visione di un panorama incredibile: da lassù poteva scorgere tutt’intorno l’Isola ed il mare circostante, a perdita d’occhio !
L’Isola verdissima, carica di giungla, si stendeva per un raggio di molte miglia intorno a lui, poi iniziava l’intenso azzurro del mare, che lentamente sfumava lontano, sino alla vaga linea di confine in cui pareva congiungersi con l’azzurro più tenue del cielo.
Il sole era ormai calante nel pomeriggio ed era improbabile che Victor potesse ancora scorgere l’arrivo del magico uccello meccanico di Architagora, la sua macchina volante.
Ciònondimeno, chi ha tempo non ne aspetti altro ed organizzò subito un ampio braciere di pietre sull’orlo del cratere, all’interno del quale radunò la ramaglia che si era portata dal basso, così che fosse pronta ad ardere fumosamente per segnalare al Mago la sua presenza là in cima.
Probabilmente quel fumo sarebbe stato notato anche dagli indigeni e dalle guardie di Karimbad, cioè da tutti i suoi inseguitori, ma Victor calcolò che avrebbero potuto interpretarlo come un’estemporanea fumata del vulcano…
In ogni caso prima che potessero raggiungerlo era assai più probabile che arrivasse sino a lui Architagora con il suo velivolo, a prelevarlo.
Provò infine il funzionamento delle pietre focaie che aveva raccolte, verificando che nel giro di pochi minuti gli permettevano di ottenere la fiamma necessaria ad avviare il fuoco di segnalazione.
A quel punto mancava non molto al tramonto, il sole stava scendendo sull’orizzonte e dopo essersi preparato una sorta di giaciglio in una necchia rocciosa, foderata con gli arbusti meno ruvidi della sua riserva combustibile, Victor si accinse ad ispezionare i d’intorni, nella vaghissima speranza di reperire alcunchè di commestibile.
Il cratere aveva un diametro di circa 400 metri e sprofondava all’interno con pareti scure e scoscese, sino a perdersi in un totale buio infernale.
Il suo bordo, mediamente largo pochi metri era aspro ed accidentato ed in alcuni tratti si stringeva sino ad una spanna di larghezza, per transitare sulla quale occorrevano doti di equilibrio adeguate e totale assenza di vertigini.
Nulla tuttavia, se paragonato alla drammatica visione della cascata precipitante sotto di lui, quando in estremis era riuscito ad afferrare il ramo della salvezza, cui era rimasto appeso, penzolante sul baratro rombante la mattina di quello stesso giorno !
Victor avanzò sulla circonferenza del crinale per circa un quarto di miglio: aveva notato a quella distanza un assiduo volo di uccelli plananti tra le rocce e sperava di trovarvi un nido, le cui uova sarebbero state un ottimo ricostituente per la sua fame arretrata…
Avvicinandosi realizzò che si trattava di falchi pellegrini, tipici delle scogliere marine ed usi a nutrirsi di altri uccelli pescatori o direttamente di pesci, colti al volo sfiorando con gli artigli la superfice del mare.
Come fossero finiti a nidificare là in cima, ad oltre tremila metri di altezza, era assai strano e singolare. Forse si trattava di una specie mutante, adattata a nuove abitudini per necessità contingenti di valenza locale.
In ogni caso non sarebbe stato facile convincerli a cedergli l’eventuale nidiata.
Victor arrivò con lenta cautela nel punto del cratere in cui aveva notato il via vai dei falchi, che nel frattempo si erano allontanati cercando di distrarlo altrove.
Guardando attentamente, nella penombra del cratere, pochi metri sotto di lui notò un anfratto dove un nido poteva in realtà celarsi.
La ripa interna era ripida e scivolosa per la cenere che la rivestiva.
Ma anche la fame era tanta, superando il timore per quel rischio di scendere sino al nido a raccoglierne il contenuto.
Victor osservò attentamente quei pochi metri di discesa da percorrere, all’interno del precipizio: se fose scivolato non sarebbe riuscito ad arrestarsi se non in fondo al cratere, cioè chissà dove, dopo un salto di forse migliaia di metri ! O forse perfino all’inferno !
Ciònondimeno si accinse anche a quell’avventura.
Tenendosi ben ancorato con le mani alla sommità del ciglio, discese con il corpo all’interno della bocca del vulcano, scavando con la punta dei piedi nella cenere sino a trovare un qualche affidabile appiglio sui cui appoggiare.
Ugualmente fece poi con le mani, avendo sempre cura di avere contemporaneamente in presa tre arti su quattro. Così, con lentezza assai prudente discese i pochi metri utili a raggiungere il nido.
Ma proprio allora avvertì alle sue spalle un vorticoso fremito d’ali, e l’urlo stridulo, agghiacciante del falco che gli piombava addosso per difendere il suo nido !
Sentì anche il fitto dolore alla schiena causatogli dalla violenta aggressione del rapace, le cui zampe ungulate gli aveva piantato sotto la scapola destra.
Victor dovette fare uno sforzo di autocontrollo sovrumano per non abbandonare la presa di mani e piedi sulla ripida parete del cratere.
E subito dopo riuscire a piazzarsi in sicurezza nel breve anfratto in cui ubicava il nido.
Al ritorno del falco si era già voltato, afferrando una pietra repentinamente colta sulla cengia, così da poter adeguatamente fronteggiare quella furia volante.
Al terzo successivo attacco Victor ebbe la freddezza di prendere bene la mira e l’energia di scagliare con rapida violenza il grosso sasso, colpendo alla testa il rapace, che finì per rotolare tramortito giù per il pendio, sino a perdersi nel buio del concavo cono vulcanico.
Dolorante per la ferita alla schiena riprese fiato, constatando la presenza di sette uova all’interno del nido.
Il dolore che avvertiva era vivo, bruciante e probabilmente la sua carne scalfita sanguinava, ma nulla poteva fare per verificarlo, né curarlo in quella parte del suo corpo. Cercò quindi di distrarsi dal problema dedicandosi alle uova.
Ne soppesò una, appena più grande di quelle di gallina, cercando di valutarne la freschezza, ne ruppe il guscio e l’annusò, senza percepire alcun effluvio negativo.
Poi la bevve, con cautela, verificandone l’accettabile sapore e la gratificazione di alimentarsi sostanziosamente dopo il forzato digiuno, durante il quale avava per altro dovuto bruciare tantissime energie.
Ne bevve un’altra e poi un’altra ancora, cercando di farlo con calma, nel rispetto del suo stomaco da qualche tempo inattivo, come gli aveva spesso raccomandato di fare il Mago suo Maestro, che da tempo lo aveva introdotto alla pratica di periodici digiuni, per depurare e rinforzare il corpo e la mente, seppure mai in coincidenza con attività fisica impegnativa.
Avvolse infine le quattro uova rimaste in una sorta di marsupio formato annodando il lembi della camicia e si apprestò a risalire sino all’orlo del vulcano.
Lo fece curando attentamente di riposizionare saldamente mani e piedi negli stessi incavi che aveva realizzato scendendo.
Arrivò sul bordo del cratere per assistere al meraviglioso spettacolo del sole che tramontava, una rossa, enorme palla di fuoco che si tuffava nel mare di cobalto all’orizzonte, la cui lontana linea disegnava assai bene la curvatura terrestre.
Decise poi che anche per lui era giunta l’ora del riposo e si adagiò nel riparato incavo di roccia, appena sotto il margine del cratere, che aveva già attrezzato con
gli arbusti meno ruvidi prelevati dalla fascina che sin lassù aveva recato per alimentare il previsto fuoco di segnalazione.
Ma prima di indulgere al sonno si bevve altre due delle uova rimaste, lasciando le rimanenti per la colazione del successivo mattino.
Così che gli fù più facile e gradevole appisolarsi con la pancia piena di quell’alimento ricco di sostanze assai nutrienti.
E presto fù tra le braccia di Morfeo…
Fine della 4^ Parte
martedì 25 ottobre 2011
La Principessa rapita. 3^ Parte
La Principessa rapita. 3^ Parte
Victor era dunque in fuga sull'Isola del Te, approdatovi dopo una lunga nuotata, rocambolescamente evaso dalla stiva del veliero ammiraglio di Karimbad, dove era tenuto prigioniero dopo la sua cattura, seguita alla liberazione della Principessa Monia, ricondotta in patria dal Mago Architagora a bordo della sua prodigiosa Macchina Volante.
La flotta di Karim, appena partita per le Indie, già stava rientrando nella baia per catturarlo di nuovo ed alla sua caccia avrebbe certamente coinvolto anche parte della popolazione indigena.
Victor aveva calcolato di avere forse due ore di vantaggio sugli inseguitori.
Non conosceva il territorio su cui si stava rapidamente muovendo.
L'Isola non era molto grande, ma ricca di vegetazione, di montagne molto scoscese, di ripidi corsi d'acqua, laghi, cascate.
Non aveva idea di che fauna avrebbe potuto incontrare in quelle foreste, nè di eventuali pericoli ed ostacoli.
L'unica strategia che aveva in mente era una fuga nei meandri della fitta giungla, verso le vette più alte, da cui avrebbe potuto più facilmente controllare l'eventuale arrivo del suo amico Mago, che sicuramente sarebbe ritornato per tentare di soccorerlo a bordo della Macchina che volava.
Non era armato, la corta scimitarra che aveva sottratto al suo carceriere fuggendo l'aveva dovuta abbandonare prima di tuffarsi in mare, perchè lo avrebbe ostacolato ed appesantito nella lunga nuotata verso riva.
Spesso era costretto ad aggirare i fitti intrichi di vegetazione che lo ostacolavano nella fuga. Sperava che ciò avrebbe forse ridotto le tracce del suo passaggio, che cercò di rendere ancora meno evidenti, muovendosi con la maggior circospezione possibile. Ma questo procedere non favoriva di certo la sua velocità di fuga.
Si rendeva anche conto che una volta che avesse raggiunto una vetta, su quella avrebbe probabilmente finito con l'essere accerchiato dagli inseguitori.
Ormai la visibilità si era ridotta praticamente a zero: con la notte era ormai sopraggiunta nella giungla sabbe stato buio totale.
Si risolse quindi all'attesa ed al vigile riposo, arrampicandosi su di un alto e frondoso albero, poco oltre l'inizio della foresta, su cui riuscì in qualche modo ad inventarsi uno scomodo giaciglio.
Il suo dormiveglia durò solo poche ore, presto arrivò improvvisa l'alba tropicale ed allora discese dal suo nascondiglio ripartendo con determinata urgenza.
Dopo un'ora abbondante di faticosa fuga attraverso la giungla tropicale
Victor giunse infine sull'orlo di un precipizio, che improvvisamente si era aperto davanti a lui e nel quale la foresta sembrava quasi precipitare, unicamente fermata dalle rocce del dirupo.
In fondo al quale, circa trenta metri più in basso, vide un piccolo lago, in cui si specchiava l'abbondante vegetazione.
In quella situazione si sentì bloccato: la giungla ed i probabili inseguitori alle spalle, il precipizio davanti !
Aggrappandosi ai rami più sporgenti si protese sul baratro per controllare se non vi fosse una qualche via di discesa, ma vide solo un liscio muro di roccia lavica, nera e bagnata dalla rugiada del mattino, incombente sul lago.
Subito dopo notò molte lunghe liane che pendevano dall'intrico della foresta verso il baratro. Avendo di che reciderle avrebbe potuto formare una lunga fune, utile per la discesa...Cercò se trovasse una pietra affilata, una scheggia, qualcosa di tagliente, ma nulla...
In quella udì un lontano brusio, che infine riconobbe come il latrare di cani...
Su quell'Isola avevano dunque dei segugi ? Oppure erano parte dell'equipaggio dei vascelli indiani ?
Comunque fosse quegli animali erano probabilmente ormai sulle sue tracce...odorose, stimò a non più di mezz'ora da lui ! Doveva al più presto attraversare quel lago, facendovi perdere le sue tracce olfattive. Ma come raggiungerlo ?
Un tuffo da quell’altezza e senza conoscere la profondità del fondale sarebbe stato ad altissimo rischio…
Victor si mosse lungo il costone del dirupo, nell’intrico della giungla che tuttavia vi strabordava, alla ricerca di una via di discesa, di un punto meno esasperato da cui saltare.
Spostandosi notò che il lago era in realtà formato da un corso da’acqua che si allargava in quel tratto più ampio della stretta e scoscesa vallata.
Lui ora muoveva verso valle, nella direzione in cui scorreva il fiume.
Ciò poteva essere in contrasto con la sua intenzione di raggiungere una vetta da cui poter intercettare la Macchina Volante di Arcitagora.
Ebbe un attimo di perplessità, ma subito considerò che ora doveva innanzitutto seminare gli inseguitori. Opportunità che gli fù ribadita udendo ancora il latrato dei cani, ora più chiaro e quindi più vicino. Riprese quindi a muoversi in quella direzione.
Dopo altri duecento metri, faticosamente percorsi sull’orlo del precipizio infestato dall’intrico della giungla, notò penzolare nel baratro una liana più lunga delle altre, che scendeva sin quasi a metà dell’erta ripa che sovrastava l’acqua, sino quasi a lambire una sorta di minuscola cengia, appena intagliata nella liscia parete verticale.
Da quel punto sino alla superfice del lago stimò ci fossero circa una quindicina di metri, al massimo venti: un tuffo che diventava alla sua estrema portata.
L’acqua sottostante era di un azzurro cupo, tipico dei fondali più profondi.
Ancora udì, più vicino, il latrato dei cani…e questo lo fece decidere.
Raggiunse dunque poco più avanti il punto in cui la liana penzolava, lontana almeno tre o quattro metri dall’orlo dell’alta ripa. Occorreva saltare ed afferarla al volo, non c’erano alternative, tranne risalire sull’albero, sino al punto da cui si staccava quella lunga radice aerea, penzolante nel vuoto. Ma avrebbe perso tempo prezioso.
Victor cercò il punto più vicino alla liana, controllò attentamente la solidità della ripa da cui doveva spiccare il salto, respirò profondamente tre volte, cercando la massima concentrazione, già articolando le dita delle mani, alla cui ferma presa era ora affidata la sua sopravvivenza, attivando la massima acutezza dei suoi sensi per il balzo che stava per compiere…e quindi saltò !
Raggiungendo ed afferrando la fune, neppure un paio di metri più in basso rispetto al punto da cui aveva spiccato il breve volo.
Sotto il carico improvviso del suo peso la liana cedette di altri due metri, ma resse infine il peso. Victor veloce discese e fù presto al termine della liana, appeso al suo capo inferiore, penzolante sul lago sottostante.
A quel punto constatò che si trovava a circa quattro metri da quella minima cengia scorta dall’alto, che nelle sue intenzioni avrebbe potuto costituire il trampolino per il suo tuffo spericolato. Di nuovo si trovò a considerare quanto tempo e fatica avrebbe dovuto dedicare alle acrobazie necessarie per raggiungere quel punto di equilibrio assai precario.
Decise allora che sarebbe saltato direttamentedalla fune, usandola come pendolo per allontanarsi dalla parete di roccia e raggiungere l’acqua il più lontano possibile dalla sottostante riva, là dove presumibilmente era più profonda.
(a lato "angel's fall", la cascata più alta del mondo, oltre 900 mt., in Venezuela)
Accentuando il dondolio della liana raggiunse la parete rocciosa, contro la quale si appoggiò con i piedi dandosi poi una grande spinta, che lo portò ad allontanarsi almeno sei metri verso l’esterno, la dove approfittando della residua spinta si lasciò infine andare, curando poi subito di assumere una posizione idrodinamica, la più vertiicale possibile, così da ridurre al minimo gli effetti d’urto del suo corpo con l’acqua.
Nella quale penetrò velocissimo, sprofondando per almeno cinque o sei metri, nonostante subito si fosse poi raccolto ed allargato per frenare l’immersione, giungendo però a solo metà del fondale, che in quel punto toccava circa dieci, dodici metri.
Velocemente riemerse, constatando come l’acqua fosse decisamente più fersca che non quella del mare in cui aveva lungamente nuotato la sera prima.
Evidentemente quel fiume scendeva da rilievi di considerevole altezza.
Subito iniziò a nuotare di buona lena verso la riva opposta del laghetto, distante circa tre o quattrocento metri, ma notando solo ora che il lago, in superfice apparentemente immobile, in realtà scorreva veloce verso valle.
Quando dopo pochi minuti era ormai vicino all’altra sponda, Victor udì le grida dei suoi seguitori che avevano raggiunto, guidati dai cani, l’orlo della ripa verticale da cui lui si era poc’anzi tuffato.
Grida concitate ed indispettite, cui seguì un improbabile saettare di dardi verso di lui, frecce che finirono inevitabilmente in acqua senza poterlo raggiungere a quella ormai notevole distanza.
Distanza in realtà di sole poche centinaia di metri, ma troppi perché potessero colpirlo e fortunatamente molti da superare per gli inseguitori, ora alle prese con importanti ostacoli naturali: l’alta e scoscesa ripa su cui la giungla incombeva, e l’acqua sottostante da guadare.
Un vantaggio che poteva quantificarsi in un tempo di molte ore.
Arrivando a ridosso dell’opposta riva Victor constatò che non c’era possibilità di approdarvi: le pareti lisce e verticali della roccia impedivano anche da quel lato qualsiasi possibilità di approdo.
Provò ad avvicinarsi, a trovare un appiglio, ma non trovò nulla, e sotto di lui l’abisso sprofondava nell'acqua per parecchi metri.
Nel frattempo la corrente, già avvertita nuotando nella traversata, era divenuta più rapida e continuava ad aumentare di velocità, avvicinandosi alla fine del lago, l’estuario a valle del fiume che lo alimentava.
Fù allora che Victor si rese conte di udire un progressivo, rapidamente crescente rumore, che presto avvertì come un sordo boato, in aumento preoccupante via via che si avvicinava alla fine del lago: una cascata ! Non poteva che essere un elevato, fragoroso salto d’acqua che precipitava da grande altezza.
Il panico lo colse: si trovava in balia del sempre più rapido scorrere della corrente senza la possibilità di fermarsi, trovando un appiglio lungo quella roccia ripida e levigata che formava la parete verticale della riva raggiunta.
Sollevandosi con un colpo di reni fuori dall’acqua sin quasi alla vita intravvide, a neppure un centinaio di metri, la spumosa e fragorosa linea del salto, il traguardo oltre il quale sarebbe volato da chi sa quale altezza per sfracellarsi su probabili balze e rocce sottostanti !
Pochi secondi lo separavano ormai da quell’ineluttabile destino.
Victor spinse ancora contro la parete, strisciandovi le mani sino a spellarsele.
Inutile, non trovava appigli e la corrente lo trascinava via veloce.
Era ormai a pochi metri dal salto quando vide penzolare sull’acqua un lungo ramo,
sporgente dalla riva finalmente in declino. Il ramo degradava a circa un metro dall’acqua ed a sei braccia da riva: Victor non aveva alternative, a quello doveva tentare di aggrapparsi, estremo tentativo di salvezza e così fece.
Forsennatamente si allontanò dall’innarivabile muro di pietra che gli scorreva accanto e raggiunse contemporaneamente il baratro ed il ramo, che afferrò in un guizzo disperato, finendo immediatamente dopo, sulla spinta ormai dirompente dell’acqua in cascata, a dondolare su di un baratro che stimò profondo almeno un centinaio di metri !
Cercando di non scivolare sulla presa, con le mani bagnate ed insanguinate per le ferite provocate dall’attrito sulla roccia, si sollevò sul ramo a forza di braccia, con sforzo sovrumano, finchè fù fuori dall’acqua e riuscì a ghermirlo saldamente anche con le gambe intrecciate.
Mentre così tentava di riprendere fiato, dovette forzarsi oltremodo per per non cedere la panico per la terribile visione che inevitabilmente gli dava l’orrido sottostante, su cui si trovava a penzolare, ancora in una situazione di totale rischio per la vita.
Victor concentrò la sua attenzione sul ramo della sua possibile salvezza: scendeva obliquo dalla ripa dal tronco di una sorta di acacia contorta e tuttavia maestosa, vero miracolo della natura in quel contesto di scoscesa, grande precarietà del suolo in cui aveva disperatamente sprofondato le sue radici.
Iniziò a muoversi, arrampicandosi con lenta, ferma cautela, afferrando saldamente la scivolosa superfice del ramo per risalirlo, sino a raggiungerne il tronco e quindi la riva.
Aggrappato con braccia e gambe, lentamente, con estrema prudenza, riuscì infine a guadagnare quella base, abbracciando il tronco della pianta che lo aveva salvato, poco sopra licheni ed arbusti che formavano compattandolo quel pendio.
Mentre così riprendeva fiato e smaltiva parte della tanta adrenalina prodotta dalle sue surrenali in quella terribile occasione, indulse ad osservare come, la dove il lago terminava nell’estuario del fiume, defluendo direttamente nella cascata, terminavano anche le strette pareti rocciose della montagna, scavata a mò di canion dal corso dacqua, nel divenire infinito del tempo.
Così la montagna tutta, improvvisamente precipitava, insieme alla cascata o quasi, verso valle, in un rapido pendio scosceso, ma ancora in gran parte formato dall’intrico verde della giungla, in soluzione di continuità.
Così restò Victor, lungamente fermo e saldamente avvinto, calmando l’affannoso respiro e rallentando il tumultuoso battito del cuore, mentre sotto di lui continuava il grande, minaccioso fragore dell’abissale cascata, che si era poc’anzi confuso con quello interiore dei suoi sensi.
Fine della 3^ Parte
nonnorso
venerdì 14 ottobre 2011
La Principessa rapita. 2^ Parte
LA PRINCIPESSA RAPITA 2^ Parte
Il Mago Architagora, con il cuore pesante per aver dovuto abbandonare il suo pupillo Victor nelle mani degli Indiani di Karimbad, fece ritorno al regno di Continental per riportarvi la Principessa Monia, sottratta ai rapitori grazie sopratutto al coraggio del prode Victor.
Dopo alcune ore di volo sul grande Mare Oceano il Mago ebbe qualche problema ad atterrare con la sua macchina volante nel grande cortile del Castello Reale: nessuno aveva mai visto quel diabolico e stranissimo oggetto volante, che fù accolto dagli arcieri con nuguli di frecce, inutilmente scagliate per l'impossibilità di scalfirne la durissima corazza.
Il Mago, utilizzando infine un potente amplificatore vocale riuscì a farsi riconoscere, annunciando il ritorno della Principessa Monia, sana e salva. Grandi furono allora il trupudio, la gioia e la felicità manifestate dal Re, dalla Regina e da tutta la Corte Reale, cui non parteciparono il Mago e la Principessa, tuttavia preoccupati per la sorte dell'eroico Victor.
Il Re manifestò subito l'intenzione di inviare un'altra flotta, perchè si riunisse a quella già mandata ed insieme andassero alla volta delle Indie, per attaccare quegli infidi nemici e liberare il Principe Victor.
Ma il Mago subito lo calmò, ridimensionando l'eventualità per le difficoltà che implicava, i lunghi tempi di attuazione ed i gravi rischi, anche a carico di Victor, la cui stessa vita avrebbe potuto essere posta in pericolo da quel tipo di operazione.
No, disse il Mago, tocca a me salvarlo e lo farò con l'aiuto della mia macchina volante, la mia magia e le risorse della mia scienza !
Il tempo di ricaricare di energia il suo prodigioso apparecchio e già la mattina del giorno successivo Architagora partiva alla volta delle Indie.
Nel frattempo il povero Victor, frustato a sangue ed imprigionato nella stiva del veliero ammiraglio, aveva avuto tristemente tempo e modo di meditare sulla sua infelice situazione, che sembrava proprio non offrirgli vie di salvezza.
Ma la speranza è sempre l'ultima a morire e mai si deve cedere alla disperazione: questo gli aveva innanzitutto insegnato e sempre raccomandato il suo Maestro Mago ! E non era forse ricorrendo anche a questi principi che Victor era riuscito a vincere il torneo, quando tutto sembrava ormai perduto nella penultima prova ed era stato disarcionato al salto dal suo cavallo, imbizzarrito perché fatto drogare da Karimbad ?
(in alto mare)
Costretto e dolorante, nel buio freddo ed umido della profonda stiva, decise dunque di usare in ogni modo la sua mente, la sua fantasia, per trovare un'impossibile soluzione alla sua prigionia.
Lo rincuorava la certezza che il suo amico Architagora non lo avrebbe mai abbandonato.
Dopo aver a lungo riflettuto realizzò che il momento migliore per tentare la fuga sarebbe stato il prossimo scalo, il primo sulla via delle Indie, che le navi di Karim sarebbero state costrette a fare per rifornirsi di acqua e di cibi freschi.
Là dove probabilmente lo avrebbe raggiunto il Mago, per aiutarlo a fuggire.
(the rock mountain all'isola del te)
E dopo alcuni giorni la piccola flotta approdò in una baia dell’Isola del Te, sostandovi per i rifornimenti l’intera giornata.
Victor nel frattempo, nell’oscura penombra della stiva aveva realizzato un arguto strategemma per liberarsi della fune che gli legava entrambe le mani ad un grosso anello fissato al pagliolato.
Aveva inutilmente provato a scardinarlo, tirando e strappando, non riuscendo a recidere in alcun modo la grossa corda ritorta.
Aveva anche provato con i denti, ma era troppo rigida, comunque scomoda per poterla mordere.
Gli era allora balenata l’idea di far lavorare per lui i grossi topi che affollavano la stiva e che gli si avvicinavano pericolosamente quando il marinaio di guardia gli portava la sbobba, il rancido pastruglio destinato ad alimentarlo per la sua breve sopravvivenza. Che tale era probabilmente nelle intenzioni di Karim: condurlo alle Indie come trofeo, nel migliore dei casi tentare di usarlo come merce di scambio per riavvicinare la Principessa Monia.
Victor si forzava comunque di cibarsi dell’orrido, grasso, maleodorante intruglio, più per opportunità di sussistenza che non di fame, che il solo odore emanante da quella ciottola immediatamente gli toglieva qualsiasi apetito !
Ma così non era per i ratti della stiva, che si litigavano i suoi avanzi, unti e rancidi.
Victor allora escogitò di ungere con quel rancido grasso, probabile ultimo avanzo della cucina di bordo, la fune che lo legava.
(vele al vento)
Nonostante le mani fossero sempre strettamente legate tra di loro, così come riusciva ad usarle per per portarsi la ciottola alla bocca riuscì anche ad impregnare per bene la fune, nella zona più vicina a terra, dove era fissata al pavimento, ad un paio di metri da lui, così che i ratti potessero più tranquillamente dedicarsi a rosicchiarla.
E la fune venne così progressivamente tagliata, incisa dai denti taglienti dei topi, nella loro azione golosa, determinata ed efficace. In gara tra di loro seguivano un preciso ordine gerarchico di rosicchiata, ciascuno impegnandosi al massimo, se non altro per non dar addito a chi lo avrebbe seguito nel turno…Victor continuava ad ungere ogni volta la corda, usando anche l’ultima patina di grasso che impregnava la sua misera ciottola, per conservare la corda appetitosa all’olfatto ed al gusto dei sorci.
la costa sud dell'isola)
Al terzo giorno la fune era ormai ridotta a brandelli e Victor dovette cercare di nasconderne la zona sfibrata agli occhi dei suoi guardiani, cercando di distrarli.
Ma ora il tempo incalzava: la nave era già ferma in rada da alcune ore e da un momento all’altro sarebbe ripartita. All’imbrunire Victor decise che doveva assolutamente approfittare di quella sosta e del buio per tentare la fuga..
(il gran salto nel buco del diavolo, sull'isola del te)
Tentò di strapparla, ma le forti fibre che la formavano ancora resistettero ai suoi sforzi !
Poi, più che vedere, armeggiando a ridosso dell’anello cui la corda era affrancata, ne colse al tatto un asperità alla base, appena affiorante dall’assito, dove l’anello era inchiodato.
Afferrata allora la fune tra le mani e tesala per quel poco che gli consentiva lo stretto legaccio intorno alle sue mani prigioniere, cominciò a sfregarne assiduamente gli ultimi capi sfilacciati contro quell’asperità vagamente tagliente.
Lavorò così per almeno mezz’ora, senza tregua, sbucciandosi le nocche delle dita contro l’assito , ma alla fine quel che restava della corda cedette e tra le mani gli rimasero i due capi, tronchi e sfilacciati.
Subito Victor si alzò per sgranchirsi e per una breve ispezione nella stiva.
A tentoni trovò la porta, ovviamente sbarrata dal catenaccio esterno che ogni volta che gli portavano il suo miserrimo pasto sentiva manovrare.
Aveva già considerato l’aggressione al marinaio di guardia: l’avrebbe colto alle spalle, strangolandolo con un cappio formato dalla breve cima rimasta legata alle sue mani.
Ma siccome quello recava sempre una lanterna per vederci nel buio della stiva, gli organizzò un fantoccio, utilizzando stracci e cianfrusaglie, che avesse le sembianze del suo corpo, accasciato come sempre accanto all’anello cui era sinora stato legato. A maggior verosimiglianza pose sopra a quel simulacro anche i suoi vestiti e si pose in attesa, apoggiato alla paratia dell stiva, accanto alla porta, subito dietro al suo compasso di apertura.
Non mancava molto all’ora in cui gli avrebbero portato la sbobba serale. Essenziale era che il veliero non partisse prima !
Il tempo non passava mai, i minuti erano in quell’attesa lunghi come giorni. Victor tremò per la disperazione udendo urlare gli ordini per la partenza: il veliero si accingeva dunque a salpare !
Disperato sentì il lontano e sordo cigolio degli argani che issavano le vele ed il rude borbottio della catena che il verricello stava arrotolando per recuperare l’ancora, ultimo atto prima della partenza.
Ma quei rumori avevano coperto i passi del marinaio di guardia che gli portava la cena: Victor sentì infatti all’ultimo minuto lo scricchiolio del catenaccio ed abbe appena il tempo di prepararsi all’apertura della porta. La guardia entrò biascicando nella sua lingua incomprensibili parole, sicuramente di scherno nei riguardi di Victor, ma come varcò l’apertura dell’uscio la voce gli si strozzo in un sordo gemitò, la gola irrimediabilmente stretta nella mortale presa per cui Victor, veloce come il fulmine l’ebbe subito avvolto e strangolato, nonostante l’estremo dibattersi del suo carceriere. La presa fù tale che non si limitò a strozzarlo, ma ruppe anche le vertebre del collo, determinando con ciò l’immediata fine del malcapitato.
Rapidissimo Victor realizzò che doveva assolutamente abbandonare la nave finchè si trovava ancora nella baia, a portata di una sua vigorosa nuotata verso la costa.
Il momento era propizio, essendo sicuramente tutto l’equipaggio ancora impegnato nelle manovre della partenza.
(cascate in sequenza sull'isola del te)
Indossò la divisa del marinaio, per lui striminzita, e si precipitò, ma con cautela, su per le scale, attraverso i boccaporti, sino a raggiungere la coperta, dove ormai rimaneva ben poca luce del tramonto avanzato.
Si affacciò guardingo all’aperto, subito cogliendo con piacere la fresca brezza marina.
Si trovava a circa tre quarti del veliero, verso il castello di poppa che dominava la sottostante coperta, dal quale avrebbero potuto scorgerlo il comandante, il nostromo ed il timoniere, che stavano dirigendo le manovre della partenza.
La nave aveva già iniziato a cogliere il vento di tramontana e su in alto, arrampicati sugli alberi, i marinai stavano ancora srotolando le ultime vele mentre da basso già avveniva la regolazione di quelle tuttavia spiegate.
Tutti erano ancora impegnati ed anche sul castello di poppa, in zona di comando, i nasi erano prevalentemente rivolti in alto, a controllare le manovre.
(cala la notte nella rada)
Solo il timoniere buttava ogni tanto l’occhio in basso, sulla rotta in uscita dalla baia, guidato dagli avvisi che da prua gli urlava il marinaio di vedetta.
Victor colse l’attimo in cui sul castello di poppa tutti, incluso il timoniere, guardavano verso l’alto, alle manovre della velatura, in via di completamento.
Uscì dal boccaporto di coperta e con passo deciso si avviò verso poppa, da dove intendeva calarsi silenziosamente in mare per raggiungere a nuoto la riva, ormai distante quasi un miglio: una buona mezz’ora di nuoto a ritmo sostenuto.
Ma quando fù a ridosso del castello di poppa inaspettatamente si aprì la porta dei locali destinati agli alloggi dell’armatore e ne uscì il Principe Karimbad, che aveva appena cenato ed interveniva ad un controllo formale della partenza.
Inevitabilmente Victor e Karim s’incrociarono, subito riconoscendosi !
Il principe lesto sguainò lo spadino che sempre portava al suo fianco,
urlando a gran voce l’allarme, ma Victor gli fù subito adosso, bloccandogli con la sua la mano dell’altro che impugnava l’arma e strozzandogli il collo con l’altro braccio piegato, spingendolo violentemente contro la parete del castello.
Karim non riusci ad emettere ancora che sordi rantoli, la gola bloccata dall’inesorabile presa di Victor. Il grido d’allarme si era perso nel vento delle manovre in corso, vagamente colto soltanto dal timoniere, sempre attento alle voci che da prua gli urlava la vedetta per la rotta in uscita dalla baia.
Il nocchiere si guardò intorno, sulla plancia e sulla sottostante coperta, in allerta se udisse ancora quell’invocazione che gli pareva di aver chiaramente avvertita, ma nulla ancora ebbe a sentire, né vide.
Intanto Victor, facendo appello ad ogni sua risorsa di forza e destrezza, era riuscito a stordire Karimbad, stendendolo tramortito sulla tolda di coperta, in un buio anfratto sotto il castello di poppa.
Aveva poi rapidamente raggiunto la murata, si era calato con una fune di recupero ed aveva raggiunto il mare, subito immergendosi in profondità per poi nuotare in apnea, il più a lungo ed il più lontano possibile dal veliero che ormai viaggiava spedito verso il largo.
Quando infine riemerse, ormai privo di ossigeno, intravvide la nave allontanarsi, già distante da lui almeno duecento metri.
(la flotta di Karimbad)
Riprese fiato e ripartì poi a nuotare, veloce verso la terra ferma, calcolando di approdarvi non visto nel punto più vicino, ma lontano dalla spiaggia abitata, entro una quarantina di minuti, correnti permettendo.
Lo aiutò la risacca della marea ed in poco più di mezz’ora fù a riva.
Ma mentre stava uscendo dall’acqua udì un colpo di cannone !
Veniva dall’alto mare: Victor guardò in quella direzione e riuscì faticosamente ad intravvedere, nell’incombente oscurità che segue il tramonto, le navi di Karim che avevano invertito la rotta e stavano ritornando verso la baia dell’Isola del Te !
La sua fuga era dunque stata scoperta ed il Principe Indiano aveva ordinato di ritornare, sicuramente per catturarlo e fargli duramente pagare l’evasione e quant’altro.
Karim non aveva ora altra alternativa che darsi velocemente alla macchia, contando sul vantaggio un’ora, al massimo due, sapendo che sarebbe stato braccato non solo dagli indiani di Karim, ma sicuramente anche da gran parte degli indigeni, a cui il Principe avrebbe sicuramente palesato una ricca ricompensa per la sua cattura.
Vivo o morto !
Fine della seconda parte.
Nonnorso.
Il Mago Architagora, con il cuore pesante per aver dovuto abbandonare il suo pupillo Victor nelle mani degli Indiani di Karimbad, fece ritorno al regno di Continental per riportarvi la Principessa Monia, sottratta ai rapitori grazie sopratutto al coraggio del prode Victor.
Dopo alcune ore di volo sul grande Mare Oceano il Mago ebbe qualche problema ad atterrare con la sua macchina volante nel grande cortile del Castello Reale: nessuno aveva mai visto quel diabolico e stranissimo oggetto volante, che fù accolto dagli arcieri con nuguli di frecce, inutilmente scagliate per l'impossibilità di scalfirne la durissima corazza.
Il Mago, utilizzando infine un potente amplificatore vocale riuscì a farsi riconoscere, annunciando il ritorno della Principessa Monia, sana e salva. Grandi furono allora il trupudio, la gioia e la felicità manifestate dal Re, dalla Regina e da tutta la Corte Reale, cui non parteciparono il Mago e la Principessa, tuttavia preoccupati per la sorte dell'eroico Victor.
Il Re manifestò subito l'intenzione di inviare un'altra flotta, perchè si riunisse a quella già mandata ed insieme andassero alla volta delle Indie, per attaccare quegli infidi nemici e liberare il Principe Victor.
Ma il Mago subito lo calmò, ridimensionando l'eventualità per le difficoltà che implicava, i lunghi tempi di attuazione ed i gravi rischi, anche a carico di Victor, la cui stessa vita avrebbe potuto essere posta in pericolo da quel tipo di operazione.
No, disse il Mago, tocca a me salvarlo e lo farò con l'aiuto della mia macchina volante, la mia magia e le risorse della mia scienza !
Il tempo di ricaricare di energia il suo prodigioso apparecchio e già la mattina del giorno successivo Architagora partiva alla volta delle Indie.
Nel frattempo il povero Victor, frustato a sangue ed imprigionato nella stiva del veliero ammiraglio, aveva avuto tristemente tempo e modo di meditare sulla sua infelice situazione, che sembrava proprio non offrirgli vie di salvezza.
Ma la speranza è sempre l'ultima a morire e mai si deve cedere alla disperazione: questo gli aveva innanzitutto insegnato e sempre raccomandato il suo Maestro Mago ! E non era forse ricorrendo anche a questi principi che Victor era riuscito a vincere il torneo, quando tutto sembrava ormai perduto nella penultima prova ed era stato disarcionato al salto dal suo cavallo, imbizzarrito perché fatto drogare da Karimbad ?
(in alto mare)
Costretto e dolorante, nel buio freddo ed umido della profonda stiva, decise dunque di usare in ogni modo la sua mente, la sua fantasia, per trovare un'impossibile soluzione alla sua prigionia.
Lo rincuorava la certezza che il suo amico Architagora non lo avrebbe mai abbandonato.
Dopo aver a lungo riflettuto realizzò che il momento migliore per tentare la fuga sarebbe stato il prossimo scalo, il primo sulla via delle Indie, che le navi di Karim sarebbero state costrette a fare per rifornirsi di acqua e di cibi freschi.
Là dove probabilmente lo avrebbe raggiunto il Mago, per aiutarlo a fuggire.
(the rock mountain all'isola del te)
E dopo alcuni giorni la piccola flotta approdò in una baia dell’Isola del Te, sostandovi per i rifornimenti l’intera giornata.
Victor nel frattempo, nell’oscura penombra della stiva aveva realizzato un arguto strategemma per liberarsi della fune che gli legava entrambe le mani ad un grosso anello fissato al pagliolato.
Aveva inutilmente provato a scardinarlo, tirando e strappando, non riuscendo a recidere in alcun modo la grossa corda ritorta.
Aveva anche provato con i denti, ma era troppo rigida, comunque scomoda per poterla mordere.
Gli era allora balenata l’idea di far lavorare per lui i grossi topi che affollavano la stiva e che gli si avvicinavano pericolosamente quando il marinaio di guardia gli portava la sbobba, il rancido pastruglio destinato ad alimentarlo per la sua breve sopravvivenza. Che tale era probabilmente nelle intenzioni di Karim: condurlo alle Indie come trofeo, nel migliore dei casi tentare di usarlo come merce di scambio per riavvicinare la Principessa Monia.
Victor si forzava comunque di cibarsi dell’orrido, grasso, maleodorante intruglio, più per opportunità di sussistenza che non di fame, che il solo odore emanante da quella ciottola immediatamente gli toglieva qualsiasi apetito !
Ma così non era per i ratti della stiva, che si litigavano i suoi avanzi, unti e rancidi.
Victor allora escogitò di ungere con quel rancido grasso, probabile ultimo avanzo della cucina di bordo, la fune che lo legava.
(vele al vento)
Nonostante le mani fossero sempre strettamente legate tra di loro, così come riusciva ad usarle per per portarsi la ciottola alla bocca riuscì anche ad impregnare per bene la fune, nella zona più vicina a terra, dove era fissata al pavimento, ad un paio di metri da lui, così che i ratti potessero più tranquillamente dedicarsi a rosicchiarla.
E la fune venne così progressivamente tagliata, incisa dai denti taglienti dei topi, nella loro azione golosa, determinata ed efficace. In gara tra di loro seguivano un preciso ordine gerarchico di rosicchiata, ciascuno impegnandosi al massimo, se non altro per non dar addito a chi lo avrebbe seguito nel turno…Victor continuava ad ungere ogni volta la corda, usando anche l’ultima patina di grasso che impregnava la sua misera ciottola, per conservare la corda appetitosa all’olfatto ed al gusto dei sorci.
la costa sud dell'isola)
Al terzo giorno la fune era ormai ridotta a brandelli e Victor dovette cercare di nasconderne la zona sfibrata agli occhi dei suoi guardiani, cercando di distrarli.
Ma ora il tempo incalzava: la nave era già ferma in rada da alcune ore e da un momento all’altro sarebbe ripartita. All’imbrunire Victor decise che doveva assolutamente approfittare di quella sosta e del buio per tentare la fuga..
(il gran salto nel buco del diavolo, sull'isola del te)
Tentò di strapparla, ma le forti fibre che la formavano ancora resistettero ai suoi sforzi !
Poi, più che vedere, armeggiando a ridosso dell’anello cui la corda era affrancata, ne colse al tatto un asperità alla base, appena affiorante dall’assito, dove l’anello era inchiodato.
Afferrata allora la fune tra le mani e tesala per quel poco che gli consentiva lo stretto legaccio intorno alle sue mani prigioniere, cominciò a sfregarne assiduamente gli ultimi capi sfilacciati contro quell’asperità vagamente tagliente.
Lavorò così per almeno mezz’ora, senza tregua, sbucciandosi le nocche delle dita contro l’assito , ma alla fine quel che restava della corda cedette e tra le mani gli rimasero i due capi, tronchi e sfilacciati.
Subito Victor si alzò per sgranchirsi e per una breve ispezione nella stiva.
A tentoni trovò la porta, ovviamente sbarrata dal catenaccio esterno che ogni volta che gli portavano il suo miserrimo pasto sentiva manovrare.
Aveva già considerato l’aggressione al marinaio di guardia: l’avrebbe colto alle spalle, strangolandolo con un cappio formato dalla breve cima rimasta legata alle sue mani.
Ma siccome quello recava sempre una lanterna per vederci nel buio della stiva, gli organizzò un fantoccio, utilizzando stracci e cianfrusaglie, che avesse le sembianze del suo corpo, accasciato come sempre accanto all’anello cui era sinora stato legato. A maggior verosimiglianza pose sopra a quel simulacro anche i suoi vestiti e si pose in attesa, apoggiato alla paratia dell stiva, accanto alla porta, subito dietro al suo compasso di apertura.
Non mancava molto all’ora in cui gli avrebbero portato la sbobba serale. Essenziale era che il veliero non partisse prima !
Il tempo non passava mai, i minuti erano in quell’attesa lunghi come giorni. Victor tremò per la disperazione udendo urlare gli ordini per la partenza: il veliero si accingeva dunque a salpare !
Disperato sentì il lontano e sordo cigolio degli argani che issavano le vele ed il rude borbottio della catena che il verricello stava arrotolando per recuperare l’ancora, ultimo atto prima della partenza.
Ma quei rumori avevano coperto i passi del marinaio di guardia che gli portava la cena: Victor sentì infatti all’ultimo minuto lo scricchiolio del catenaccio ed abbe appena il tempo di prepararsi all’apertura della porta. La guardia entrò biascicando nella sua lingua incomprensibili parole, sicuramente di scherno nei riguardi di Victor, ma come varcò l’apertura dell’uscio la voce gli si strozzo in un sordo gemitò, la gola irrimediabilmente stretta nella mortale presa per cui Victor, veloce come il fulmine l’ebbe subito avvolto e strangolato, nonostante l’estremo dibattersi del suo carceriere. La presa fù tale che non si limitò a strozzarlo, ma ruppe anche le vertebre del collo, determinando con ciò l’immediata fine del malcapitato.
Rapidissimo Victor realizzò che doveva assolutamente abbandonare la nave finchè si trovava ancora nella baia, a portata di una sua vigorosa nuotata verso la costa.
Il momento era propizio, essendo sicuramente tutto l’equipaggio ancora impegnato nelle manovre della partenza.
(cascate in sequenza sull'isola del te)
Indossò la divisa del marinaio, per lui striminzita, e si precipitò, ma con cautela, su per le scale, attraverso i boccaporti, sino a raggiungere la coperta, dove ormai rimaneva ben poca luce del tramonto avanzato.
Si affacciò guardingo all’aperto, subito cogliendo con piacere la fresca brezza marina.
Si trovava a circa tre quarti del veliero, verso il castello di poppa che dominava la sottostante coperta, dal quale avrebbero potuto scorgerlo il comandante, il nostromo ed il timoniere, che stavano dirigendo le manovre della partenza.
La nave aveva già iniziato a cogliere il vento di tramontana e su in alto, arrampicati sugli alberi, i marinai stavano ancora srotolando le ultime vele mentre da basso già avveniva la regolazione di quelle tuttavia spiegate.
Tutti erano ancora impegnati ed anche sul castello di poppa, in zona di comando, i nasi erano prevalentemente rivolti in alto, a controllare le manovre.
(cala la notte nella rada)
Solo il timoniere buttava ogni tanto l’occhio in basso, sulla rotta in uscita dalla baia, guidato dagli avvisi che da prua gli urlava il marinaio di vedetta.
Victor colse l’attimo in cui sul castello di poppa tutti, incluso il timoniere, guardavano verso l’alto, alle manovre della velatura, in via di completamento.
Uscì dal boccaporto di coperta e con passo deciso si avviò verso poppa, da dove intendeva calarsi silenziosamente in mare per raggiungere a nuoto la riva, ormai distante quasi un miglio: una buona mezz’ora di nuoto a ritmo sostenuto.
Ma quando fù a ridosso del castello di poppa inaspettatamente si aprì la porta dei locali destinati agli alloggi dell’armatore e ne uscì il Principe Karimbad, che aveva appena cenato ed interveniva ad un controllo formale della partenza.
Inevitabilmente Victor e Karim s’incrociarono, subito riconoscendosi !
Il principe lesto sguainò lo spadino che sempre portava al suo fianco,
urlando a gran voce l’allarme, ma Victor gli fù subito adosso, bloccandogli con la sua la mano dell’altro che impugnava l’arma e strozzandogli il collo con l’altro braccio piegato, spingendolo violentemente contro la parete del castello.
Karim non riusci ad emettere ancora che sordi rantoli, la gola bloccata dall’inesorabile presa di Victor. Il grido d’allarme si era perso nel vento delle manovre in corso, vagamente colto soltanto dal timoniere, sempre attento alle voci che da prua gli urlava la vedetta per la rotta in uscita dalla baia.
Il nocchiere si guardò intorno, sulla plancia e sulla sottostante coperta, in allerta se udisse ancora quell’invocazione che gli pareva di aver chiaramente avvertita, ma nulla ancora ebbe a sentire, né vide.
Intanto Victor, facendo appello ad ogni sua risorsa di forza e destrezza, era riuscito a stordire Karimbad, stendendolo tramortito sulla tolda di coperta, in un buio anfratto sotto il castello di poppa.
Aveva poi rapidamente raggiunto la murata, si era calato con una fune di recupero ed aveva raggiunto il mare, subito immergendosi in profondità per poi nuotare in apnea, il più a lungo ed il più lontano possibile dal veliero che ormai viaggiava spedito verso il largo.
Quando infine riemerse, ormai privo di ossigeno, intravvide la nave allontanarsi, già distante da lui almeno duecento metri.
(la flotta di Karimbad)
Riprese fiato e ripartì poi a nuotare, veloce verso la terra ferma, calcolando di approdarvi non visto nel punto più vicino, ma lontano dalla spiaggia abitata, entro una quarantina di minuti, correnti permettendo.
Lo aiutò la risacca della marea ed in poco più di mezz’ora fù a riva.
Ma mentre stava uscendo dall’acqua udì un colpo di cannone !
Veniva dall’alto mare: Victor guardò in quella direzione e riuscì faticosamente ad intravvedere, nell’incombente oscurità che segue il tramonto, le navi di Karim che avevano invertito la rotta e stavano ritornando verso la baia dell’Isola del Te !
La sua fuga era dunque stata scoperta ed il Principe Indiano aveva ordinato di ritornare, sicuramente per catturarlo e fargli duramente pagare l’evasione e quant’altro.
Karim non aveva ora altra alternativa che darsi velocemente alla macchia, contando sul vantaggio un’ora, al massimo due, sapendo che sarebbe stato braccato non solo dagli indiani di Karim, ma sicuramente anche da gran parte degli indigeni, a cui il Principe avrebbe sicuramente palesato una ricca ricompensa per la sua cattura.
Vivo o morto !
Fine della seconda parte.
Nonnorso.
Iscriviti a:
Post (Atom)